Un interessante precedente del Consiglio Nazionale Forense (C.N.F., 13/12/2018, n. 177), ribadisce in modo chiaro che l’avvocato può essere chiamato a rispondere disciplinarmente dei propri comportamenti, anche se questi ultimi pertengano alla sfera della vita privata e non a quella dell’attività professionale svolta.
Così, nel caso di specie è stato rigettato il ricorso di un avvocato (condannato in prime cure alla sospensione dall’esercizio della professione per sei mesi), il quale si aveva unilateralmente ed immotivatamente
«interrotto la corresponsione degli assegni alimentari ai tre figli, senza dare giustificazioni alla famiglia, né agire per ottenere una riduzione degli stessi, ma accumulando un ingente debito e arrivando fino a subire un’esecuzione forzata su beni mobili con l’intervento della forza pubblica e del fabbro».
Il CNF, infatti, ha ribadito il principio secondo cui va riconosciuto disvalore sotto il profilo deontologico a tutti quei comportamenti,
«tenuti dagli avvocati nella loro vita privata che, venendo meno la dignità, la probità e il decoro, si riflettano sfavorevolmente sulla loro reputazione e di conseguenza sulla considerazione di cui la classe forense dovrebbe godere»,
quale sicuramente è quello di specie, siccome comportante certo «discredito personale e, di riflesso, per la classe professionale cui l’avvocato appartiene».
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Scarica C.N.F., 13/12/2018, n. 177