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CASS. CIV., SEZ. I, 12/05/2021, N. 12567
«Con riguardo alle società di capitali, la giurisprudenza ha avuto modo di rilevare che la responsabilità degli amministratori sociali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l’azione sia proposta L. Fall., ex art. 146) è tenuto ad allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri, come pure a provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei predetti doveri (Cass. 31 agosto 2016, n. 17441). La stessa conclusione si impone con riferimento alle società di persone.
A fronte di disponibilità patrimoniali pacificamente fuoriuscite dall’attivo della società, questa, nell’agire per il risarcimento del danno nei confronti dell’amministratore, può dunque limitarsi ad allegare l’inadempimento, consistente nella distrazione delle dette risorse, mentre compete allo stesso amministratore la prova del suo adempimento, consistente nella destinazione delle attività patrimoniali all’estinzione di debiti sociali (come quelli eventi ad oggetto gli utili di esercizio e i compensi spettantigli) o il loro impiego per lo svolgimento dell’attività sociale, in conformità della disciplina normativa e statutaria» (Massima non ufficiale)
FATTI DI CAUSA
1. – [Omissis] s.n.c. conveniva in giudizio [Omissis], amministratore oramai revocato della società, per sentirne dichiarata la responsabilità discendente dall’arbitraria sottrazione dalle casse sociali delle somme di Euro 270.000,00 e di Euro 389.002,75, nonché dall’illegittimo trattenimento dell’ulteriore importo di Euro 52.750,00 relativo a proventi che avrebbero dovuto confluire nelle disponibilità liquide dell’ente. Domandava, pertanto, la condanna del convenuto alla restituzione della complessiva somma di Euro 711.752,75, oltre interessi, nonché al risarcimento dei danni causati.
[Omissis], nel costituirsi, eccepiva in via preliminare l’inammissibilità della domanda a fronte della sussistenza di una clausola arbitrale; sosteneva, inoltre, l’infondatezza della pretesa attorea deducendo di aver trattenuto le somme per pareggiare gli importi precedentemente prelevati dagli altri soci dalle casse sociali, “in acconto superiore al credito”.
Il Tribunale di [Omissis] accoglieva la domanda di restituzione e respingeva quella risarcitoria.
2. – La pronuncia di primo grado era poi impugnata da [Omissis] avanti alla Corte di appello di [Omissis] che respingeva il gravame.
3. – Avverso la sentenza della Corte [Omissis], pronunciata il 3 novembre 2016, ricorre per cassazione, con cinque motivi, [Omissis] Resiste con controricorso [Omissis] s.n.c. Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo di ricorso oppone la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 5, art. 4, comma 2 e art. 6, comma 1. Rileva il ricorrente che la Corte territoriale aveva ritenuto validamente introdotto, in primo grado, il giudizio di cui al R.G. n. [Omissis], successivo a quello recante R.G. n. [Omissis], avente lo stesso oggetto e vertente tra le stesse parti. É lamentato che il giudice dell’impugnazione non abbia rilevato che il secondo giudizio era stato proposto allorquando non era ancora spirato il termine per il prosieguo del primo, il quale era stato cancellato dal ruolo, giusta D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 5: secondo l’istante, la Corte di appello avrebbe dovuto d’ufficio dichiarare l’improcedibilità della domanda introdotta col secondo giudizio e disporre l’annullamento della sentenza impugnata.
Il motivo è inammissibile.
La Corte di appello, con riguardo al tema della mancata costituzione dell’odierno ricorrente, ha osservato che nel fascicolo d’ufficio del procedimento R.G. n. [Omissis] non era dato di rinvenire né la comparsa di risposta, né il fascicolo della parte; ha aggiunto che [Omissis], in grado di appello, si era limitato ad unire al fascicolo di parte relativo al giudizio di gravame la memoria di costituzione prevista per il rito societario, priva di relata di notifica, in cui era stato contestato il contenuto dell’atto di citazione della controparte: ha osservato, al riguardo, che il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 5, prevede, invece, che la costituzione in giudizio debba avvenire mediante deposito del fascicolo di parte contenente l’originale o la copia della comparsa di risposta notificata all’attore, la copia della citazione notificata, la procura e i documenti offerti in comunicazione. Secondo il giudice dell’impugnazione, inoltre, non sarebbe stato possibile obiettare che, in presenza della cancellazione della causa dal ruolo (a norma dell’art. 1, comma 5 D.Lgs. cit.), il processo fosse proseguito tra le originarie parti (e che, per conseguenza, rilevasse la regolare costituzione del convenuto nella fase precedente il mutamento del rito): e ciò in quanto, a seguito della cancellazione dal ruolo della causa R.G. n. [Omissis], la società [Omissis] aveva “instaurato un nuovo giudizio notificando un autonomo atto di citazione con conseguente nuova iscrizione a ruolo”.
La censura non coglie, nella sua pienezza, l’argomentazione che qui viene contrastata, la quale ruota intorno all’alterità dei due giudizi: il primo introdotto nelle forme del rito ordinario e il secondo in quelle dell’abrogato rito societario. Come è evidente, disposta la cancellazione della causa dal ruolo, il primo procedimento avrebbe dovuto essere riattivato dall’attore con la memoria di replica prevista dal D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 6; nella fattispecie, invece, la società provvide a notificare una nuova citazione, e quindi a introdurre un nuovo giudizio. L’affermazione del ricorrente secondo cui tale iniziativa avrebbe comportato il prodursi di una litispendenza – per il che, è spiegato, il secondo giudizio avrebbe dovuto dichiararsi improcedibile – non può essere condivisa. Non può aversi litispendenza ex art. 39 c.p.c., comma 1, tra due cause pendenti avanti al medesimo ufficio (per tutte: Cass. 23 settembre 2013, n. 21761). Tra giudizi introdotti avanti allo stesso giudice può operarsi semmai la riunione: nondimeno, in termini generali, il provvedimento di riunione previsto dall’art. 274 c.p.c., relativo alla stessa causa (riunione obbligatoria) o a cause diverse ma connesse (riunione facoltativa), ovvero dettato da motivi di economia processuale, essendo strumentale e preparatorio rispetto alla futura definizione della controversia, è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. 4 ottobre 2004, n. 19840; nel senso che l’inosservanza dell’obbligo di disporre la riunione dei procedimenti relativi alla stessa causa non comporta la nullità del giudizio e della sentenza che abbia concluso uno dei procedimenti: Cass. 31 maggio 2006, n. 13001).
Oltretutto, in assenza di riassunzione il procedimento di cui al R.G. n. [Omissis] deve essersi estinto, non essendovi evidenza, relativamente ad esso, di alcuna attività processuale consistente nella (tempestiva) notifica di scritti difensivi o dell’istanza di fissazione di udienza: al momento della pronuncia di primo grado del procedimento R.G. n. [Omissis], pertanto, questo era l’unico giudizio pendente avanti al Tribunale di [Omissis] tra le odierne contendenti, vertente sulla responsabilità di [Omissis] per mala gestio. Tale circostanza – merita aggiungere – sarebbe stata decisiva anche nel caso in cui i procedimenti fossero stati introdotti avanti a giudici diversi: infatti, laddove trova applicazione la disciplina di cui all’art. 39 c.p.c., la questione relativa alla sussistenza della litispendenza deve essere decisa con riguardo alla situazione processuale esistente al momento della relativa pronuncia (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26862; Cass. 31 marzo 2011, n. 7478), sicché il giudice successivamente adito deve respingere la relativa eccezione allorquando a tale data il giudizio preventivamente instaurato non sia più pendente per intervenuta estinzione (Cass. 1 dicembre 2010, n. 24376; Cass. 16 gennaio 2006, n. 721; si vedano inoltre le pur datate Cass. 28 aprile 1989, n. 2000 e Cass. 16 aprile 1984, n. 2462, per le quali l’estinzione di un processo per inattività delle parti può essere accertata incidenter tantum dal giudice di un diverso processo, e quindi, in caso di litispendenza, anche da quello che è stato investito per secondo della medesima causa)
2. – Col secondo mezzo è dedotta la nullità della sentenza del procedimento per violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 5,L. n. 69 del 2009, art. 54, commi 5 e 6, oltre che dell’art. 163 c.p.c., n. 7 e la nullità dell’atto di citazione; è altresì denunciata la violazione degli artt. 159 e 161 c.p.c., nonché dell’art. 183 c.p.c. e dell’art. 24 Cost. Osserva il ricorrente che la Corte di appello, dopo aver osservato che il giudizio R.G. n. [Omissis] era autonomo rispetto al primo (R.G. n. [Omissis]), non si era avveduta che esso non era disciplinato dal rito societario, quanto piuttosto dal rito ordinario: è in conseguenza rilevato che l’atto introduttivo della causa doveva contenere gli avvertimenti di cui all’art. 163 c.p.c., n. 7, onde la citazione introduttiva, che mancava di essi, era da ritenersi nulla. É rilevato che ciò aveva impedito ad esso ricorrente di costituirsi ritualmente, nei termini e nelle forme previste per il giudizio ordinario, ai sensi dell’art. 166 c.p.c. e che da ciò era inoltre conseguita la mancata deduzione dei mezzi istruttori.
Il motivo è privo di fondamento.
L’erronea applicazione delle regole del codice di rito non può pregiudicare o aggravare in modo non proporzionato l’accertamento del diritto, in quanto la pronuncia di merito è garanzia di effettività della tutela ex art. 24 Cost.; inoltre l’art. 111 Cost., assegna rilievo costituzionale al principio di ragionevole durata del processo al pari di quello del diritto di difesa, sicché il contemperamento dei due principi porta ad escludere la correttezza di interpretazioni che prevedano la regressione del processo per il mero rilievo della mancata realizzazione di determinate formalità, la cui omissione non abbia in concreto comportato limitazioni delle garanzie difensive (Cass. 5 aprile 2018, n. 8422; cfr. pure, in tema, Cass. 17 ottobre 2014, n. 22075 e Cass. n. 27 gennaio 2015, n. 1448). In particolare, dall’adozione di un rito errato non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di impugnazione, a meno che l’errore di rito non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte (Cass. 29 settembre 2005, n. 19136).
Nella specie, l’unico pregiudizio fatto valere dal ricorrente è quello che si assume essere derivato dalla mancata presenza, nella citazione attorea, dell’avvertimento di cui all’art. 163 c.p.c., n. 7. Tale avvertimento non risulta effettivamente previsto dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 2; nondimeno, l’odierno ricorrente non può opporre che l’erronea applicazione dell’abrogato rito societario lo abbia privato del diritto di difesa che è correlato all’indicato avvertimento: questo ha ad oggetto le decadenze riferite alle domande riconvenzionali, alle eccezioni proponibili a norma dell’art. 38 c.p.c. e alle eccezioni in senso stretto: è tuttavia da osservare che nel corso del giudizio non risultano essere state proposte domande riconvenzionali (che l’istante, del resto, nemmeno deduce di aver inteso svolgere) e che nel rito societario le eccezioni non rilevabili d’ufficio e la stessa eccezione di incompetenza possono essere sollevate fino alla seconda memoria difensiva depositata del D.Lgs. n. 5 del 2003, ex art. 7, comma 1 (Cass. Sez. U. 23 gennaio 2017, n. 1641; Cass. 18 aprile 2014, n. 9028). Il ricorrente non è stato quindi pregiudicato dalla mancata presenza, nel corpo della citazione attorea, dell’avvertimento concernente le richiamate eccezioni, visto che esse non andavano sollevate, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta: oltretutto, una questione di competenza, precisamente riferita al tema della devoluzione della controversia agli arbitri, è stata bensì affrontata nel corso del giudizio, ma senza che assumessero rilievo profili di preclusione processuale.
2. – Col terzo motivo è lamentata la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost. Il mezzo di censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui è ivi osservato che dalla lettura dei bilanci sociali non si desumerebbe che esso ricorrente avesse conseguito, alla data di chiusura degli esercizi degli anni 2006, 2007 e 2008, il diritto alla percezione di utili per un importo pari alle somme indebitamente sottratte, ovvero compensi per lo stesso importo. É osservato non potersi giustificare, attraverso l’esame solo parziale della situazione contabile della società, l’affermazione di responsabilità dell’istante e la conseguente sussistenza degli obblighi restitutori.
Col quarto motivo vengono denunciate la violazione o falsa applicazione degli artt. 2260,2262 e 2303 c.c., nonché dell’art. 2697 c.c. É in sintesi osservato che l’eventuale mancata emersione processuale dei crediti di [Omissis] dagli ultimi tre bilanci non escludeva che i crediti medesimi potessero trovar riscontro nella precedente contabilità. Viene rilevato, al riguardo, che il socio della società in nome collettivo ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto, senza che sia a tal fine necessaria una Delibera assembleare di approvazione della ripartizione degli utili stessi. É dedotto, inoltre, che l’onere della prova della mala gestio della società competeva a quest’ultima e che era errato ritenere che spettasse all’amministratore la prova di aver correttamente adempiuto ai propri obblighi e di aver maturato, nel corso degli anni, crediti nei confronti della società in misura corrispondente alle somme di cui si era riappropriato.
Il quinto mezzo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente si duole del mancato accertamento dell’inadempimento della società, della effettiva consistenza dell’ammontare degli utili a lui spettanti e di ogni altra somma allo stesso dovuta, siccome maturata nel corso degli anni, fino alla presunta illegittima sottrazione, nonché, infine, della consistenza degli utili spettanti a ciascun socio e dei prelevamenti non autorizzati di contante posti in essere. Viene evidenziato come, sebbene agli atti del giudizio di cui al R.G. n. [Omissis] non fosse presente l’originale della comparsa di risposta, la Corte di appello avrebbe dovuto considerare le difese svolte e i documenti prodotti nel precedente procedimento, acquisendo il pertinente fascicolo (R.G. n. [Omissis]).
I tre motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati.
La sentenza impugnata è censurata nella parte in cui la Corte di appello ha osservato che la società attrice aveva prodotto in giudizio i bilanci relativi agli anni 2006, 2007 e 2008, i quali erano stati regolarmente approvati, e ha inoltre rilevato che dalla lettura degli stessi non emergeva la maturazione, in capo a [Omissis], di “utili per un importo pari alle somme indebitamente sottratte, ovvero compensi all’amministratore per uguale importo”.
Ciò detto, la deduzione del ricorrente secondo la quale il giudice distrettuale avrebbe preso in esame elementi contabili parziali, laddove avrebbe dovuto verificare l’ammontare degli utili e dei compensi maturati dall’amministratore nel corso degli anni, non coglie nel segno.
Infatti, a fronte della pacifica appropriazione, da parte dell’amministratore, di somme acquisite al patrimonio sociale, spettava al detto soggetto dimostrare che tali importi corrispondevano a utili o compensi a lui dovuti.
Se è vero, in particolare, che nelle società di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c., alla approvazione del rendiconto (Cass. 4 luglio 2018, n. 17489; Cass. 31 dicembre 2013, n. 28806), è altrettanto vero che gravava sull’amministratore fornire la prova dell’approvazione di rendiconti che dessero ragione del maturarsi di tale diritto (e, in conseguenza, della legittimità dei corrispondenti prelievi). Analoghe considerazioni possono formularsi con riguardo al diritto al compenso, giacché, anche sul punto, era l’odierno ricorrente a dover dimostrare che lo storno attuato trovava giustificazione nell’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile di pari ammontare.
Tale conclusione può dirsi imposta dalla natura contrattuale della responsabilità dell’amministratore: questa Corte, con riguardo alle società di capitali, ha già avuto modo di rilevare che la responsabilità degli amministratori sociali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l’azione sia proposta L. Fall., ex art. 146) è tenuto ad allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri, come pure a provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei predetti doveri (Cass. 31 agosto 2016, n. 17441). La stessa conclusione si impone con riferimento alle società di persone.
A fronte di disponibilità patrimoniali pacificamente fuoriuscite dall’attivo della società, questa, nell’agire per il risarcimento del danno nei confronti dell’amministratore, può dunque limitarsi ad allegare l’inadempimento, consistente nella distrazione delle dette risorse, mentre compete allo stesso amministratore la prova del suo adempimento, consistente nella destinazione delle attività patrimoniali all’estinzione di debiti sociali (come quelli eventi ad oggetto gli utili di esercizio e i compensi spettantigli) o il loro impiego per lo svolgimento dell’attività sociale, in conformità della disciplina normativa e statutaria. Può menzionarsi, al riguardo, un arresto della giurisprudenza di legittimità in fattispecie analoga: infatti, proprio muovendo dalla natura contrattuale della responsabilità dell’amministratore sociale, questa Corte ha precisato che la società richiedente il risarcimento del danno, o il curatore, in caso di sopravvenuto fallimento di quest’ultima, sia tenuta a dedurre l’inadempimento dell’amministratore quanto alle giacenze di magazzino, restando poi a carico del convenuto l’onere di dimostrare l’utilizzazione delle merci nell’esercizio dell’attività di impresa (Cass. 10 agosto 2016, n. 16952).
In assenza di riscontri in tal senso, non vale, poi, eccepire che la Corte di appello avrebbe dovuto prendere in esame le difese svolte e i documenti prodotti nel giudizio per cui era stato disposto il mutamento del rito, e che non fu riassunto: è evidente, difatti, che, risultando i due giudizi indipendenti l’uno dall’altro, nessuna norma consentiva di riversare in modo automatico le allegazioni e le prove del procedimento R.G. n. [Omissis] in quello di cui al R.G. n. [Omissis].
3. – In conclusione, il ricorso è respinto.
4. – Per le spese di giudizio opera il criterio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte;
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di, legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.