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Dopo le Sezioni Unite della Suprema Corte, la Corte Costituzionale (C. Cost., 10/07/2019, n. 173) torna nuovamente sul c.d. vincolo del doppio mandato.
La questione, come noto, ha avuto – ed ha – risvolti davvero devastanti per l’immagine dell’avvocatura, la cui unica causa va rivenuta nell’irresponsabile atteggiamento di chi ha inspiegabilmente resistito all’unica interpretazione ragionevole della normativa vigente in materia di eleggibilità ai COA: non più di due mandati, non oltre due mandati, ivi compresi le decadi (perché di ciò si tratta) trascorse.
Interpretazione, quest’ultima, avallata, più che da argomenti giuridici che lasciamo ai professori di turno, dalla logica del buon senso: ogni mente semplice in possesso dei primordi democratici sa, infatti, che l’effetto traino determinato dall’essere “in sella” per anni comporta distorsioni elettorali importantissime. Concetto quest’ultimo, valevole al cubo quando i COA gestivano il procedimento disciplinare, ma non certo meno convincente oggi, per ragioni che solo le anime troppo candide o troppo perdute possono ignorare.
Senonché, ne abbiamo lette e sentite di tutti i colori in questi ultimi tempi sul tema in oggetto. Tante che non vale neppure la pena di riassumerle, se non, forse, per ricordare che, dopo il noto intervento della Sezioni Unite (svilite dal paludato mainstream – sempre di turno – al rango di giudice qualunque del caso qualsiasi), oggi torna sull’argomento la Corte Costituzionale, investita del tema dal CNF in un momento di forse inconsapevole harakiri giuri-psicologico.
La Corte (la cui funzione nomofilattica si ha ragione di ritenere nessuno metterà oggi in discussione, anche se non si sa mai) esprime alcuni concetti, di una semplicità talmente evidente da risultare inusuale, sintetizzabili come segue: 1) il divieto del terzo mandato è presidio di democraticità; 2) la relativa previsione non è affatto retroattiva, e si limita, invece, a considerare nel computo dei mandati svolti anche quelli pregressi (e chiunque abbia voglia di andarsi a verificare i dati degli eletti al COA degli ultimi venti anni – cartacei, perché quelli informatici non si trovano più in giro, guarda caso – può capirne la ragione).
Il divieto di doppio mandato è garanzia di imparzialità e trasparenza
Sul primo dei due punti di cui sopra, vale la pena ascoltare la viva voce della Corte in un passaggio di cristallina chiarezza:
«il divieto del terzo consecutivo mandato favorisce il fisiologico ricambio all’interno dell’organo, immettendo “forze fresche” nel meccanismo rappresentativo (nella prospettiva di assicurare l’ampliamento e la maggiore fluidità dell’elettorato passivo), e – per altro verso – blocca l’emersione di forme di cristallizzazione della rappresentanza; e ciò in linea con il principio del buon andamento della amministrazione, anche nelle sue declinazioni di imparzialità e trasparenza, riferito agli ordini forensi, e a tutela altresì di valori di autorevolezza di una professione oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore, in ragione della sua diretta inerenza all’amministrazione della giustizia e al diritto di difesa».
Il che, peraltro, è quel che avevano già affermato, nel perdurante sdegno dei “turnisti h24” di cui sopra, le Sezioni Unite.
La norma non è affatto retroattiva, è solo ragionevole
Sul tema della c.d. retroattività – anch’esso, come si ricorderà, già affrontato dalle Sezioni Unite – la Corte Costiuzionale, poi, premette che
«la previsione di un limite ai mandati che possono essere espletati consecutivamente è un principio di ampia applicazione per le cariche pubbliche − membri elettivi del Consiglio superiore della magistratura (CSM); componenti del Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato; membri del Consiglio nazionale forense; componenti del Consiglio nazionale del notariato, tra gli altri − ed è, comunque, un principio di portata generale nel più specifico ambito degli ordinamenti professionali»;
continua osservando che la normativa sottoposta a scrutinio non regola
«in modo nuovo fatti del passato (non attribuisce cioè direttamente ai precedenti mandati conseguenze giuridiche diverse da quelle loro proprie nel quadro temporale di riferimento), ma dispone “per il futuro”, ed è solo in questa prospettiva che attribuisce rilievo, di requisito negativo, al doppio mandato consecutivo espletato prima della ricandidatura»;
e conclude, infine (ribadendo quanto già affermato dalle S.U.), che
«l’applicazione immediata del divieto del terzo mandato consecutivo a chi abbia già espletato i due precedenti consecutivi mandati costituisce, dunque, una misura ragionevolmente scelta dal legislatore del 2017, destinata ad operare, per il futuro, nelle successive competizioni elettorali forensi».
Tradotto in termini più banali per i non professori-di-turno: se, per l’eleggibilità ad un certo organismo, un bel giorno entra in vigore una norma che stabilisce un limite di due mandati e Tizio ne ha già svolti una quindicina in precedenza (cosa piuttosto diffusa nella realtà della fattispecie), occorre che Tizio si faccia una ragione del fatto che non potrà più partecipare alle elezioni.
E questo è quanto.
Bene: e ora?
Premesso ciò – cioè premesso quanto gli uomini di buona volontà non avrebbero avuto difficoltà a comprendere se solo avessero affrontato il tema in esame con l’occhio libero dall’evangelica trave – due domande:
- dopo una vicenda che ha consumato in modo surreale e irresponsabile fratture profondissime nell’avvocatura e ne ha screditato forse irreversibilmente l’immagine, interessa ancora se, domani, gli ineleggibili rassegneranno o meno le dimissioni, oppure se i diversi ricorsi sparpagliati sul territorio saranno o meno accolti, con analogo effetto?
- dopo lo spettacolo cui ci è toccato di assistere, ci sentiamo ancora rappresentati dal sistema ordinistico?
La risposta di chi scrive è: no. Ma questo è un altro capitolo.
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Scarica C. Cost., 10/07/2019, n. 173