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CASS. CIV., SEZ. I, 21/05/2021, N. 14049
«L’accordo con il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscono il trasferimento di beni immobili, rientra nel novero degli atti suscettibili di revocatoria fallimentare ai sensi degli artt. 67 e 69, L. Fall. non trovando tale azione ostacolo nell’avvenuta omologazione dell’accordo stesso, cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione.
Nel caso di pregresso regime di comunione legale dei beni, poi, non c’è dubbio che detta pattuizione, in astratto, sia suscettibile di revoca proprio in ragione delle peculiarità caratteristiche del regime in questione, che è comunione senza quote, di talché l’attribuzione di un bene ricadente nella comunione ad uno dei coniugi ineluttabilmente determina uno spostamento patrimoniale, consistente in ciò che il bene appartenente ai coniugi in comunione senza quote diviene appartenente a quello dei due che ne abbia avuto l’assegnazione» (Massima non ufficiale)
RILEVATO
CHE:
1. – [Omissis] ricorre per otto mezzi, illustrati da memoria, nei confronti del Fallimento [Omissis], contro la sentenza del [Omissis] con cui la Corte d’appello di [Omissis] ha respinto l’appello avverso sentenza del Tribunale di [Omissis] pronunciata in accoglimento della revocatoria fallimentare dell’atto, risalente al 1991, di assegnazione, in sede di separazione consensuale dei coniugi [Omissis] – [Omissis], di alcuni terreni e fabbricati per il resto già appartenenti alla [Omissis] in quanto cadenti nella comunione legale, oltre che della quota sociale di partecipazione in una S.r.l., a fronte dell’assegnazione al [Omissis] dei beni aziendali di un’impresa edile, dotata di beni mobili e strumentali.
2. – Il Fallimento resiste con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
3. – Il ricorso contiene otto motivi.
3.1. – Il primo mezzo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4 in relazione agli artt. 329,342,346 e 112 c.p.c., per avere la corte di appello, ritenuto coperto, da giudicato interno la qualificazione giuridica della domanda L. Fall., ex art. 67, comma 1”.
Il motivo è rivolto contro la parte di sentenza in cui la Corte d’appello afferma che la decisione del Tribunale “qualifica l’azione ai sensi della L. Fall., art. 67, n. 1; né l’appellante né l’appellata svolgono contestazioni sulla detta qualificazione, sì che è da ritenersi del tutto inammissibile, oltre che infondata, la deduzione di parte appellante avanzata solo nella conclusionale di questo grado, secondo la quale il giudice avrebbe qualificato l’azione ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, dimenticando però che in tal caso l’arco temporale da considerare sarebbe annuale e non biennale”.
Sostiene per contro la ricorrente di aver formulato un motivo di appello diretto ad evidenziare che l’atto intercorso tra i coniugi non aveva natura dispositiva, ma meramente dichiarativa, tale da non comportare cioè alcuno spostamento patrimoniale dall’uno all’altro, aggiungendo che il motivo così formulato poneva evidentemente in discussione la stessa sussunzione della fattispecie entro l’ambito di applicazione dell’art. 67, comma 1, n. 1, della legge fallimentare, nel testo – conviene precisare – applicabile ratione temporis, e cioè nella formulazione antecedente alle riforme del 2006-2007.
Nel corpo del motivo si afferma inoltre che l’inquadramento dato dal Tribunale all’azione proposta neppure sarebbe stato suscettibile di giudicato, “poiché il giudicato si forma sui capi della sentenza e non sui principi di diritto autonomamente considerati”.
3.2. – Il secondo mezzo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione alla L. Fall., art. 67 ed agli artt. 178 c.c. e segg., artt. 191 e 194 c.c., nonché all’art. 1362 c.c.”.
Il motivo, che si protrae da pagina 11 a pagina 25 del ricorso, è diretto a sostenere che l’atto intercorso tra i coniugi aveva natura meramente dichiarativa, dal momento che in essa, in breve, non era prevista “nessuna eccedenza di valore di una delle due quote, né tantomeno figura espressa la volontà dei coniugi di assegnare un ipotetico bene in eccedenza di quota dall’uno all’altro coniuge”. Si aggiunge che la Corte d’appello avrebbe errato nell’interpretare l’atto in questione, tenuto conto del fatto che la comunione legale tra i coniugi non si era sciolta in occasione del fallimento, ma poco meno di due anni prima per effetto di separazione coniugale.
3.3. – Il terzo mezzo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 67 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c.”.
La tesi sviluppata dalla ricorrente da pagina 26 a pagina 34 del ricorso si riassume in ciò, che la Corte d’appello, una volta verificato che la divisione intercorsa tra le parti non aveva ad oggetto la “Ditta [Omissis]”, bensì soltanto i beni strumentali dell’impresa, avrebbe dovuto trarne il rigetto della domanda di revoca della divisione proposta dal Fallimento: il giudice di merito, cioè, si sarebbe sottratto “al dovere di pronunciarsi sulla censura svolta dalla [Omissis], secondo cui, essendo diverse le circostanze di fatto, poste a sostegno della domanda di revocazione, la domanda di revocatoria andava respinta”, tanto più che il fallimento aveva concluso per il rigetto dell’impugnazione e la conseguente conferma, in ogni sua parte, della decisione del Tribunale, il quale aveva ritenuto che oggetto dell’atto adottato in sede di separazione consensuale fosse l’impresa nel suo complesso, e non i soli beni strumentali di essa.
3.4. – Il quarto motivo denuncia: “Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c. e art. 111 Cost.”.
Si denuncia motivazione apparente in ordine alla valutazione dei beni strumentali di cui si è detto.
3.5. – Il quinto motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 in relazione all’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. con riferimento agli artt. 178 c.c. e ss., artt. 191 e 194 c.c., nonché per omesso esame di fatto decisivo”, censurando la sentenza impugnata sull’assunto che il Fallimento non avrebbe dedotto e provato il valore dei beni de residuo.
3.6. – Il sesto motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione alla L. Fall., art. 96, u.c. nonché art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo”, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto, sulla base degli accertamenti esperiti, che vi fosse sperequazione tra il valore dei beni attribuiti all’uno e all’altro dei coniugi.
3.7. – Il settimo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 in relazione alla L. Fall., artt. 67 e ss. e artt. 190 e 194 c.c.”, censurando la sentenza impugnata per avere omesso di considerare che i creditori del [Omissis] bene avrebbero potuto agire nei confronti della [Omissis], sui suoi beni personali, per il 50%.
3.8. – L’ottavo motivo di denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 in relazione alla L. Fall., artt. 64, 67 e 70 e artt. 190 e 194 c.c.”, censurando la sentenza impugnata per aver omesso di considerare che questa Corte ha escluso l’applicabilità della presunzione muciana di cui alla L. Fall., art. 70 nel caso di coniugi tra i quali sia vigente il regime di comunione legale dei beni.
RITENUTO
CHE:
4. – Il ricorso va respinto.
4.1. – É infondato il primo mezzo.
Secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, il potere di qualificazione del rapporto giuridico nei gradi successivi al primo va coordinato con le regole proprie del sistema delle impugnazioni, sicché è precluso al giudice di appello di mutare d’ufficio, in mancanza di specifica impugnazione, la qualificazione giuridica data dal primo giudice al rapporto controverso (v., p. es., Cass. 30 luglio 2008, n. 20730; Cass. 11 luglio 2007, n. 15496; Cass. 12 luglio 2005, n. 14573; Cass. 18 aprile 2005, n. 8082; Cass. 1 dicembre 2010, n. 24339; Cass. 3 luglio 2014, n. 15223; Cass. 22 maggio 2017, n. 12843; Cass. 10 maggio 2019, n. 12875).
In linea di principio, dunque, è senz’altro esatta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui, una volta qualificata la domanda del Fallimento come proposta ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 1, n. 1, nel testo all’epoca vigente, detta qualificazione, in mancanza di uno specifico motivo d’appello, fosse destinata a rimanere ferma, nel quadro di applicazione dell’art. 329 c.p.c., comma 2.
Ciò detto, la Corte d’appello ha altresì del tutto correttamente ritenuto che su detta qualificazione fosse sceso il giudicato per mancanza di impugnazione sul punto.
Ed invero, nel corso del giudizio di primo grado la [Omissis] ha resistito alla revocatoria assumendo che l’atto intervenuto con il marito, in sede di separazione consensuale, non avesse carattere dispositivo, ma meramente dichiarativo, e che, cioè, l’atto medesimo non avesse comportato alcuno spostamento patrimoniale, con conseguente inapplicabilità, secondo la stessa [Omissis], dell’allora vigente L. Fall., art. 69: viceversa, la convenuta non ha mai neppure approssimativamente sostenuto la tesi, se non per un accenno svolto soltanto in conclusionale, ormai tardivamente, secondo cui detta pattuizione dovesse ritenersi regolata non dal comma 1 dell’art. 67, ma dal comma 2 della disposizione, con la derivante soggezione dell’azione introdotta dal Fallimento al termine annuale (e non biennale) colà previsto, termine già decorso all’epoca della notificazione della citazione per il giudizio volto alla revoca dell’atto.
Ed un motivo di tal fatta neppure compare, quand’anche in nuce, nell’atto d’appello, giacché in esso, nella parte trascritta alle pagine 8-10, è semplicemente riproposta la tesi già svolta in primo grado, senza il benché minimo accenno al perché l’atto in questione dovesse essere ricondotto non agli “atti a titolo oneroso compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso” (comma 1, numero 1, dell’art. 67), ma al comma 2 della disposizione, che voleva revocati “i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati”.
Punto, quest’ultimo, in effetti non svolto.
4.2. – Il secondo mezzo è in parte infondato, in parte inammissibile. É difatti cosa nota che, come la Corte d’appello ha debitamente ricordato a pagina 7 della sentenza impugnata, l’accordo con il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscano il trasferimento di beni immobili, rientra nel novero degli atti suscettibili di revocatoria fallimentare ai sensi della L. Fall., artt. 67 e 69, non trovando tale azione ostacolo nell’avvenuta omologazione dell’accordo stesso, cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione (Cass. 12 aprile 2006, n. 8516; per la revocatoria ordinaria Cass. 15 aprile 2019, n. 10443).
Non c’è dubbio, cioè, che detta pattuizione, in astratto, sia suscettibile di revoca. Proprio in ragione delle peculiarità caratteristiche della comunione legale, che è comunione senza quote (basterà citare la sentenza numero 311 del 1988 della Corte costituzionale), l’attribuzione di un bene ricadente nella comunione ad uno dei coniugi ineluttabilmente determina uno spostamento patrimoniale, consistente in ciò che il bene appartenente ai coniugi in comunione senza quote diviene appartenente a quello dei due che ne abbia avuto l’assegnazione. Di qui la astratta revocabilità.
Fin qui il motivo è infondato.
Altra cosa è che, in concreto, a seconda dei casi e della volontà delle parti, il trasferimento possa manifestare una natura onerosa, ovvero possa presentarsi quale liberalità non donativa, ovvero, ancora, possa essere espressivo di una funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli. Tema, quest’ultimo, qui non rilevante, avuto riguardo all’accertamento di merito, non sindacabile come tale in questa sede, secondo cui palese era la sproporzione tra il valore dei beni attribuiti alla [Omissis] e quello, molto minore, del compendio mobiliare rimasto in capo al [Omissis]
Per il resto, il motivo è inammissibile, giacché la ricorrente ha lamentato un asserito errore commesso dal giudice di merito nell’interpretare l’atto stipulato dai coniugi. Ma non ha bisogno di essere rammentato che la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (Cass. 15 novembre 2013, n. 25728).
Nel caso di specie il motivo di ricorso per cassazione non spiega quali sarebbero i criteri ermeneutici violati, ponendo essenzialmente l’accento sulla circostanza, del tutto insignificante per i fini in discorso, che la comunione tra i coniugi si fosse sciolta non per il fallimento, ma già in precedenza, per la separazione.
4.3. – Il terzo mezzo è infondato.
Il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass. 19 giugno 2004, n. 11455; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19475; Cass. 11 gennaio 2011, n. 455; Cass. 24 settembre 2015, n. 18868).
Nulla del genere è accaduto nel caso di specie.
E cioè: il Fallimento, nel sostenere che l’atto concluso tra i coniugi doveva essere riferito all’azienda, nel suo complesso, strumentale all’attività imprenditoriale svolta dal [Omissis], ivi comprese le ingenti passività, ha evidentemente avanzato una prospettazione tale da estremizzare il divario tra l’entità dell’attribuzione ricevuta dall’uno e l’entità di quella pervenuta all’altra.
Per converso, la Corte d’appello ha ritenuto, accogliendo in ciò la censura della [Omissis], che l’atto in questione avesse ad oggetto non l’azienda nel suo complesso, ma soltanto i macchinari (pale meccaniche, ruspe, rullo compressore e quant’altro) impiegati dal [Omissis] nello svolgimento della sua attività di imprenditore edile.
Sicché è del tutto evidente che il giudice di merito, lungi dal modificare petitum e causa petendi, ha semplicemente riconosciuto al Fallimento un minus rispetto alla prospettazione da esso offerta.
4.4. – Il quarto mezzo è infondato.
Ha osservato la Corte territoriale: “Se si considera il valore dei beni de residuo in confronto a quello dell’azienda una simile differenza appare evidente. Sia nella prima che nella seconda consulenza il valore delle immobilizzazioni, considerato alla data dell’atto omologato il 27 novembre 1991, viene indicato in L. 467.862.593; poiché nel totale sono inclusi anche beni immobili (in realtà nel 1991 la ditta [Omissis] non aveva più beni immobili, avendo venduto gli ultimi del 1990), dovendo considerare solo il valore dei macchinari e degli altri beni strumentali, da tale importo è stato sottratto quanto attribuito, in bilancio, agli immobili, per L. 300.000.000. Risulta dunque de plano che il valore delle attrezzature ed automezzi è pari a L. 167.862.593, corrispondenti ad Euro 86.693,79”.
Trattasi di motivazione palesemente eccedente la soglia del “minimo costituzionale” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), incensurabile in Cassazione.
4.5. – Il quinto e sesto mezzo sono inammissibili, giacché diretti a ribaltare gli esiti dell’accertamento di merito svolto dalla Corte territoriale, in base alla consulenza di cui si è appena dato conto, in ordine al valore dei beni in contestazione.
4.6. – Il settimo e l’ottavo mezzo sono inammissibili, poiché sollevano questioni, quella del diritto dei creditori del [Omissis] di agire nei confronti della [Omissis], sui suoi beni personali, per il 50%, e quella della presunzione muciana, che non sono tratta nella sentenza impugnata e che, neppure risultando essere state fatte oggetto, alla lettura del ricorso per cassazione, di specifici motivi di appello, risultano pertanto essere nuovi.
Difatti, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello7dovuto(per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.