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Nonostante la novella introdotta dall’art. 54 D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito nella L. 07 agosto 2012, n. 134) sia in vigore da ormai più di un anno, rilevanti perplessità interpretativo/operative tuttora circondano l’istituto dei cd. ‘filtri’ in appello imposti dalla nuova disciplina del codice di rito. Si parla di ‘filtri’, appunto, dal momento che siamo di fronte non ad uno, bensì a due filtri dell’appello: l’uno, quello imposto dall’art. 342 c.p.c. che inerisce principalmente i nuovi requisiti di forma dell’appello, l’altro, quello imposto dall’art. 348-bis c.p.c. relativo alla ragionevole probabilità di successo del gravame.
Una breve premessa
↑Per comprendere la ratio che ha ispirato la riforma in esame, occorre prendere le mosse dalla Relazione Illustrativa contenuta nel provvedimento (D.L. 22 giugno 2012, n. 83) nella parte relativa all’art. 54, laddove quest’ultima enuncia l’intento del legislatore finalizzato ad ottenere un miglioramento dell’efficienza del sistema delle impugnazioni, anche di merito, posto che esse «allo stato violano pressoché sistematicamente i tempi di ragionevole durata del processo» (così la Relazione Illustrativa di cui sopra).
Tale documento precisa al contempo, quanto alle impugnazioni di merito, che lo scopo del legislatore della riforma non è quello di trasformare l’appello in un giudizio di legittimità (appello cd. cassatorio), bensì quello di introdurre un filtro di inammissibilità, appunto, basato essenzialmente su una «prognosi di non ragionevole fondatezza del gravame» (così la Relazione Illustrativa sopra citata), formulata dal medesimo giudice dell’appello in via preliminare alla trattazione dello stesso.
Tale innovazione è anche il risultato dell’analisi statistica degli ultimi anni, dalla quale esce un quadro caratterizzato da una bassissima percentuale di accoglimento degli appelli (solo circa il 30% degli appelli proposti hanno trovato accoglimento). In altre parole, prima della riforma, più della metà degli appelli interposti non hanno trovato accoglimento, perché dichiarati o inammissibili o improcedibili o infondati.
Il primo filtro (art. 342 c.p.c.)
↑Il primo filtro introdotto dalla disciplina è quello contenuto nella norma di cui all’art. 342 c.p.c. che prevede che «la motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».
La novella elimina dunque i vecchi requisiti della ‘esposizione sommaria dei fatti’ e della ‘specificità dei motivi’ di appello, in precedenza richiesti dalla norma in esame, così recependo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sviluppatisi negli anni post riforma L. 353/1990 intorno al concetto di motivi ‘specifici’. Tale concetto, infatti, è stato interpretato in senso sempre più restrittivo, così abbandonando via via la nozione di ‘gravame’ (quale l’appello) nella sua originaria definizione, come mezzo di doglianza generico, indeterminato ed a critica libera, in netta contrapposizione con il concetto di ‘impugnazione’ (quale la revocazione ed il ricorso per Cassazione), come mezzo di impugnazione, appunto, che deve contenere analiticamente l’indicazione di motivi specifici tassativamente predeterminati.
Secondo il nuovo orientamento, trasfuso nella novella in esame, il concetto di specificità dei motivi di appello richiesta nella formulazione vigente dell’art. 342 c.p.c., contiene in sé almeno tre significati che concernono:
(1) la necessaria individuazione della parte (o capo) della sentenza che si impugna (art. 342, 1° comma, n. 1, prima parte, c.p.c.; cd. parte rescindente): sembra farsi strada l’idea che anche nel giudizio di appello vi sia quel principio di autosufficienza conosciuto nel giudizio di Cassazione;
(2) l’individuazione dell’errore del giudice di prime cure e la sua sottoposizione a critica (art. 342, 1° comma, n. 2, c.p.c.): l’avvocato nel redigere l’atto di appello deve indicare espressamente le circostanze da cui deriva la violazione di legge e dar conto della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, specificando, dunque, in che modo il Giudice violando la norma ha dato una soluzione non conforme alla ratio della norma medesima;
(3) l’individuazione, infine, del cd. ‘progetto di sentenza’ alternativo rispetto a quello contenuto nella sentenza appellata (art. 342, 1° comma, n. 1, seconda parte, c.p.c.; cd. parte rescissoria): in sostanza, l’avvocato si trova a redigere l’atto di appello quasi come una vera e propria sentenza, e dunque ricoprendo un ruolo che non gli compete.
Quale la conseguenza applicativa della violazione dell’art. 342 c.p.c.? Fissazione dell’udienza di p.c. e decisione con sentenza dichiarativa di inammissibilità, con la conseguenza che sembrerebbe tornare applicabile il disposto dell’art. 358 c.p.c., secondo il quale «l’appello dichiarato inammissibile (…) non può essere riproposto anche se non è decorso il termine fissato dalla legge» (in questo senso, Mandrioli-Carratta, ‘Corso di diritto processuale civile’, Ed. min., Giappichelli, 2013, Vol. II, pag. 289 e s.).
Considerando l’intento acceleratorio del legislatore della riforma, sarebbe forse stato più opportuno, per la dichiarazione di inammissibilità qui in discorso, prevedere una procedura più rapida che consentisse l’anticipazione dei tempi rispetto alla tradizionale calendarizzazione processuale con fissazione di udienza di p.c. ad anni di distanza.
In proposito, potrebbe sopperire il nuovo disposto dell’ultimo comma dell’art. 352 c.p.c. che consente l’utilizzo anche in appello del procedimento, particolarmente celere, di cui all’art. 281-sexies c.p.c.
Il secondo filtro (art. 348-bis c.p.c.)
↑Il nuovo art. 348-bis c.p.c. così recita:
«Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta.
Il primo comma non si applica quando:
a) l’appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all’articolo 70, primo comma;
b) l’appello è proposto a norma dell’articolo 702 –quater».
Dunque, fuori dei casi ‘classici’ di inammissibilità, l’appello non supera comunque il particolare filtro qui in esame se, secondo una valutazione prognostica operata dal Giudice (vedremo come), non ricorre una ragionevole probabilità circa il suo accoglimento.
Sono fatte salve le eccezioni espressamente previste dalla norma, ovverosia il filtro non opera nei casi di obbligatorietà dell’intervento del PM ex art. 70 c.p.c., stante la connotazione anche pubblicistica di tali contenziosi e quando la parte abbia optato, in primo grado, per il procedimento ex art. 702-bis c.p.c. (rito sommario di cognizione).
Occorre dunque comprendere che cosa si intenda per ‘ragionevole probabilità di accoglimento’ dell’appello; le ricostruzioni offerte dalla prima dottrina e giurisprudenza edita possono riassumersi in due orientamenti:
– una prima ricostruzione ricollega il concetto della ‘ragionevole probabilità’ a quello del ‘fumus boni iuris’ . Esemplificative, sul punto, sono le linee guida della Corte di Appello di Milano del 10/10/2012, che prevedono espressamente che ‘…la prescrizione dettata dall’art. 348 ter c.p.c. va letta, quanto alla ragionevolezza della prognosi, alla stregua della valutazione del fumus boni iuris’. Ergo, l’appello per superare il filtro in questione deve presentare quel carattere di ‘verosimile esistenza del diritto’, secondo la definizione classica della dottrina e tipicamente richiesta nei procedimenti cautelari. Tale interpretazione, tuttavia, si presta a non poche critiche, considerato che sembrerebbe troppo semplicistico ridurre il tutto alla sussistenza del fumus, così come avviene nei procedimenti cautelari;
– una seconda e più condivisibile ricostruzione, invece, interpreta il concetto in esame in modo più rigoroso, richiedendo che l’appello, per poter vincere il secondo filtro, si presenti non semplicemente coperto dal ‘fumus’, bensì con una ragionevole ed ‘alta’ probabilità di accoglimento. Si richiede dunque un qualcosa in più rispetto al fumus tradizionalmente conosciuto, tanto che tale orientamento sembra quasi mutuare il concetto di ragionevole probabilità dalla disciplina penalistica, richiedendo il superamento di quel ‘ragionevole dubbio’ circa il probabile accoglimento dell’appello, al fine di consentire il vaglio delle doglianze ivi contenute nel merito. In ogni caso, anche seguendo questa seconda tesi, l’esame del giudicante in appello appare discrezionale, considerato che, come previsto al successivo art. 348-ter c.p.c., l’ordinanza di inammissibilità può essere succintamente motivata, attraverso il richiamo congiunto a precedenti giurisprudenziali conformi ed agli elementi di fatto contenuti negli atti di causa.
Un ulteriore problema di raccordo riferito alla particolare figura di inammissibilità di cui all’art. 348-bis c.p.c. concerne la mancanza di coordinamento di tale norma con quella di cui all’art. 342 c.p.c.: non è, infatti, chiaro quale dei due filtri sia preliminare all’altro. La soluzione più ragionevole sembrerebbe quella di optare per la preliminare valutazione del gravame ex art. 342 c.p.c., con la conseguenza che per poter essere esaminato alla luce dell’art. 348-bis c.p.c., l’appello deve aver già superato il primo filtro di cui all’art. 342 c.p.c. Ciò in quanto il primo vaglio ex art. 342 c.p.c. ha natura essenzialmente attinente alla forma dell’appello e, dunque, appare logicamente preliminare al secondo vaglio ex art. 348-bis c.p.c., il quale viceversa attiene, sia pure sotto un profilo tipicamente delibatorio, al merito dell’impugnazione.
Appare comunque chiaro, alla luce di quanto sopra, che l’appello dovrà essere strutturato in modo estremamente chiaro, esauriente e schematico, onde agevolare il più possibile l’analisi da parte dell’organo giudicante (in proposito si suggerisce la lettura di un precedente post pubblicato su questo blog dal titolo ‘Inammissibilità dell’appello ex art. 342, 1° co. c.p.c., nuova formulazione. C. App. Bologna 1176/2013: istruzioni per l’uso‘).
La declaratoria di inammissibilità dell’appello, nel particolare caso di cui all’art. 348-bis c.p.c., viene poi pronunciata (secondo quanto previsto dall’art. 348-ter c.p.c.) all’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. «prima di procedere alla trattazione, sentite le parti (…) con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi».
Sotto tale profilo, un accenno meritano le problematiche applicative che aleggiano intorno a tale norma: va osservato, infatti, che dall’interpretazione letterale dell’art. 348-ter c.p.c., non si comprende quale sia il rito che il giudice debba seguire per addivenire ad una declaratoria di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c.
Tale ultima norma, infatti, non appare di facile lettura soprattutto ove si riferisce ad una verifica di ammissibilità che deve aver luogo ‘prima della trattazione’, ma ‘sentite le parti’. Come fa il Giudice dell’Appello a pronunciarsi prima della trattazione, ma sentite le parti? Che cosa succede se non vengono sentite le parti? Ed, ancora, come può la motivazione dell’ordinanza in questione contenere il rinvio agli elementi di fatto degli atti di causa se deve essere pronunciata prima della trattazione e dunque prima di esaminare il gravame nel merito?
Questi sono tutti interrogativi che, ad oggi, non hanno ancora trovato soluzione. Certo è che la norma sembrerebbe introdurre una sorta di camera di consiglio ‘occulta’ prima dello svolgersi dell’udienza, ovverosia una sorta di ‘pre-camera’ di consiglio. Questa è già la prassi adottata, ad esempio, dalla Corte di Appello di Milano: infatti, nelle linee guida sopra citate, si legge testualmente che «non è prevista un’udienza filtro distinta da quelle di trattazione, ma, alcuni giorni prima di quest’ultima, il Collegio effettua la “pre-camera” di consiglio, ai fini dell’esame delle nuove cause, per le quali, fin dalla fissazione dell’udienza ex art. 168 bis quinto comma c.p.c., si dà avviso ai procuratore delle parti che alla medesima udienza è oggetto di discussione anche l’ammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c.».
Preme, infine, soffermarsi sulla possibilità prevista dalla norma in esame del riferimento nella motivazione dell’ordinanza in questione, oltre che agli elemento di fatto sopra richiamati, ai precedenti conformi. Sotto tale profilo, ci si è chiesti se sia sufficiente un unico precedente conforme ovvero se sia necessario lo sviluppo di un orientamento ben consolidato sull’argomento di cui trattasi. Sembrerebbe preferibile protendere per la seconda ipotesi, anche se in ogni caso il richiamo tout court al precedente giurisprudenziale potrebbe costituire un ostacolo all’evoluzione interpretativa della giurisprudenza.
La norma di cui all’art. 348-bis c.p.c. nulla prevede in merito ai mezzi di gravame esperibili avverso l’ordinanza di inammissibilità, limitandosi a stabilire che, intervenuta tale ordinanza, la sentenza di primo grado diviene ricorribile per Cassazione a norma dell’art. 360 c.p.c. Ne consegue che l’ordinanza ex art. 348-bis c.p.c. sembra essere non impugnabile. Il che apre un profilo interpretativo problematico in ordine all’applicabilità dell’art. 111, 7° comma, Cost., il quale prevede la ricorribilità, con ricorso straordinario per Cassazione, di ogni provvedimento avente contenuto decisorio e definitivo, quale l’ordinanza di cui trattasi. A questo punto, dunque, seguendo questa costruzione, si attiverebbero due mezzi di impugnazione: l’uno, il ricorso per Cassazione avverso la sentenza di primo grado promuovibile dopo la pronuncia di inammissibilità in questione; l’altro, il ricorso per Cassazione per violazione di legge avverso l’ordinanza di inammissibilità dell’appello.
Da ultimo, si osserva che in caso di proposizione anche di appello incidentale (tempestivo ex art. 333 c.p.c.), l’art. 348-ter, 2° comma, c.p.c. dispone che «l’ordinanza di inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l’impugnazione principale che per quella incidentale (…) ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’art. 348-bis. In mancanza, il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza». Nella prassi risulta che alcune Corti si stiano orientando per concedere una sorta di rimessione in termini all’appellante ‘fuorilegge’, onde consentirgli di integrare il proprio atto introduttivo, rinviando, al tempo stesso, a nuova udienza per la trattazione congiunta dei due gravami, principale ed incidentale.
Documenti & materiali
↑Leggi il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 07 agosto 2012, n. 134
Leggi la Relazione Illustrativa al DL Crescita
Leggi le Linee guida Corte di Appello di Milano
Leggi l’articolo dal sito ex parte creditoris
Leggi l’articolo di altalex di Luigi Viola
Avviso “Replay”
Questo articolo è stato pubblicato in data 20/11/2013 ed è stato uno dei più letti del nostro blog. Non costituisce un aggiornamento e viene nuovamente pubblicato nella sua stesura originaria per la serie “Replay” di agosto 2015.