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CASS. CIV., SEZ. VI, 07/01/2021, N. 56
«Nell’adempimento dell’incarico professionale conferitogli, l’obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, ed all’art. 2236 c.c. impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) i doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole.
A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente, al riguardo, dovendo ritenersi il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello jus postulandi, attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire in giudizio» (Massima non ufficiale)
RILEVATO IN FATTO
1. [Omissis] convenne in giudizio davanti al Tribunale di [Omissis] l’Avv. [Omissis] chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’adempimento, asseritamente negligente sotto vari profili, dell’incarico di difensore in un giudizio arbitrale, nel quale egli era stato convenuto, risultandone soccombente, per il pagamento del residuo corrispettivo di un appalto.
Il Tribunale rigettò la domanda, conseguentemente condannando l’attore al pagamento delle spese di lite nei confronti sia della convenuta che dell’assicuratrice, [Omissis] S.p.A., da questa chiamata in garanzia.
La Corte d’appello di [Omissis] ha confermato tale decisione, condannando l’appellante alle spese del grado in favore della professionista appellata.
2. Avverso la sentenza d’appello l'[Omissis] propone ricorso per cassazione, articolando tre motivi, cui resiste l’Avv. [Omissis], depositando controricorso.
L’altra intimata non svolge difese nella presente sede.
3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
La controricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1176,1218,1453 e 2697 c.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Premette che:
– tra gli addebiti di negligenza posti a fondamento della domanda, vi era quello di non avere prodotto tempestivamente nel giudizio arbitrale le fatture nn. [Omissis], [Omissis], [Omissis] e [Omissis] del 2008 relative agli acconti corrisposti alla società appaltatrice, per l’importo di Euro 50.662,59, essendosi la convenuta limitata a farne menzione in comparsa conclusionale;
– il Tribunale aveva al riguardo osservato che l’attore non aveva assolto l’onere di provare di “aver dato tempestivo avviso e consegna” di tali fatture al proprio legale;
– con il proposto gravame egli aveva, da un lato, dedotto che sarebbe stato onere dell’avvocatessa provare che l’inadempimento derivava da causa ad essa non imputabile, dall’altro, lamentato anche una erronea valutazione delle prove documentali al riguardo comunque offerte.
Ciò premesso lamenta che la Corte territoriale ha respinto detto motivo d’appello limitandosi a rilevare che la documentazione richiamata dall’appellante non era idonea a dare prova dell’avvenuta consegna delle fatture, senza però dir nulla in punto di onere della prova.
Sostiene che la mancata produzione in giudizio dei documenti indispensabili per la valutazione delle somme dovute è di per sé manifestazione di negligenza del difensore, salvo che egli dimostri di non avere potuto adempiere per fatto a lui non imputabile (art. 1218 c.c.), o di avere svolto tutte le attività che nella particolare contingenza gli potevano essere ragionevolmente richieste allo scopo (art. 1176 c.c.).
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1176,1218,1223,1453 e 2697 c.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo del giudizio.
Premette che:
– altro addebito posto a fondamento della domanda era riferito alla mancata comunicazione da parte dell’Avv. [Omissis] di quanto egli dovesse pagare a seguito della pronunzia del lodo: omissione che aveva comportato a suo carico ulteriori esborsi per Euro 2.875,33 per la procedura esecutiva attivata dalla società risultata creditrice;
– il Tribunale aveva disatteso anche tale doglianza rilevando che non vi era prova del fatto che l’ [Omissis], se ne fosse stato posto immediatamente a conoscenza, avrebbe immediatamente saldato il debito, evitando la procedura esecutiva;
– con il proposto gravame egli aveva anche sul punto dedotto una erronea applicazione delle regole di riparto dell’onere probatorio in tema di responsabilità contrattuale.
Ciò premesso lamenta che i giudici d’appello, pur dando atto in sentenza di tale motivo di gravame, hanno omesso di pronunciarsi su di esso.
Rileva, inoltre, che, ove possa ritenersi che la Corte d’appello abbia col proprio silenzio inteso richiamare integralmente la motivazione del Tribunale, la decisione sul punto si rivelerebbe in contrasto con le norme evocate in rubrica, rimarcando in particolare che la perdita della possibilità di pagare quanto statuito nel lodo arbitrale configura di per sé pregiudizio patrimoniale direttamente conseguente all’inadempimento, quantomeno come perdita di chance.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 106 c.p.c., in relazione alla confermata condanna al pagamento delle spese del giudizio di primo grado anche in favore della compagnia di assicurazioni chiamata in causa dalla convenuta.
Lamenta, in sintesi, che il principio di causalità, evocato a fondamento della statuizione da entrambi i giudici di merito, non poteva nella specie trovare applicazione, stante la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dalla convenuta nei confronti della terza chiamata: ciò in quanto l’Avv. [Omissis] aveva stipulato una polizza assicurativa con la [Omissis] S.p.A., a copertura della responsabilità professionale, solo dopo essere venuta a conoscenza della richiesta risarcitoria per cui è causa.
4. Va preliminarmente disattesa l’eccezione, sollevata dalla controricorrente, di improcedibilità del ricorso poiché notificato in via telematica senza la contestuale notifica della sentenza impugnata.
Essa è infatti priva di fondamento, non essendo prevista da alcuna norma processuale che la proposizione del ricorso per cassazione debba essere accompagnata, tantomeno a pena d’improcedibilità, anche dalla notifica della sentenza impugnata, di questa essendo ben diversamente prescritto, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, solo il deposito in copia autentica, con la eventuale relazione di notificazione, nella cancelleria della Suprema Corte.
5. Il primo motivo è fondato e merita accoglimento, nei termini qui di seguito precisati.
La Corte d’appello ha rigettato il motivo d’appello con il quale l’ [Omissis] aveva reiterato l’assunto secondo cui costituiva fonte di responsabilità per l’avvocatessa appellata non aver prodotto nel giudizio arbitrale le fatture attestanti il pagamento di una ulteriore tranche del prezzo d’appalto.
Secondo quanto esposto in ricorso tale motivo era supportato da due ordini di censure: a) da un lato, quella secondo cui non spettava al cliente dimostrare di avere fornito al difensore la documentazione da produrre poi nel giudizio arbitrale; b) dall’altro, quella secondo cui la documentazione che egli aveva prodotto nel giudizio di responsabilità (mali e attestazione della controparte) era comunque idonea, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, a provare detta consegna.
Dalla sentenza impugnata, per vero, non si trae alcuna conferma del fatto che il motivo d’appello prospettasse specificamente anche la prima censura e in che termini, occupandosi essa piuttosto solo della seconda questione, prettamente fattuale, cui dà risposta negativa: la Corte d’appello, cioè, si è limitata a rilevare che correttamente il primo giudice aveva ritenuto che “la documentazione richiamata dall’appellante non può essere considerata come prova di avvenuta consegna delle fatture nn. [Omissis], [Omissis] e [Omissis] del 2008 dal cliente all’avvocato”.
Non può dubitarsi, tuttavia, che tale motivazione costituisca di per sé applicazione di una regola di giudizio secondo cui spettava all’attore l’onere di fornire detta prova.
Ciò esclude che possa sul punto configurarsi vizio di omessa pronuncia, per vero nemmeno specificamente dedotto in ricorso. Per converso non si rende nemmeno necessaria la verifica che l’appello prospettasse effettivamente detta specifica questione di diritto (verifica che in effetti il ricorso non consentirebbe per l’inosservanza sul punto dell’onere di specifica indicazione dell’atto d’appello richiamato); quand’anche, infatti, tale specifica deduzione critica non fosse contenuta nell’appello, non se ne potrebbe far conseguire la formazione di un giudicato interno sul punto (ossia sulla regola di riparto dell’onere probatorio adottata dal primo giudice).
É noto, infatti, che il giudicato può determinarsi su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (v. Cass. 16/05/2017, n. 12202; 08/10/2018, n. 24783; 17/04/2019, n. 10760).
Poiché nel caso di specie è indubbio, ricavandosi expressis verbis dalla stessa sentenza, che l’appello aveva investito il capo di sentenza riguardante l’esclusa responsabilità del difensore per la mancata produzione nel giudizio arbitrale della prova attestante il pagamento in questione, ne discende che, fosse o meno in essa contenuta specifica argomentazione critica sulla regola di riparto dell’onus probandi, del relativo vaglio comunque il giudice d’appello poteva e doveva ritenersi investito.
Si tratta dunque di valutare – trattandosi di questione per l’appunto posta con la prima delle censure (error iuris) svolte con il motivo in esame – se la regola di giudizio, fondata sull’onere della prova, implicitamente applicata in sentenza, sia corretta, in quanto corrispondente a una esatta scomposizione della fattispecie basata sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, oppure no.
Con tale censura il ricorrente sostiene che corretta non sia la regola di giudizio applicata, assumendo che: a) rientra nell’obbligo di diligenza del difensore guidare, informare e indirizzare il cliente su regole e tempi del processo; natura dei documenti e delle prove che debbono essere sottoposti al giudice per vincere la causa; possibilità o meno di raggiungere l’obiettivo con gli elementi di cui dispone; b) la mancata produzione nel giudizio arbitrale dei documenti indispensabili per la valutazione delle somme in questione integra pertanto inadempimento colpevole, in mancanza della dimostrazione di non aver potuto adempiere per fatto non imputabile; c) era in particolare onere dell’avvocato dimostrare di non avere ricevuto tempestivamente dal cliente la suddetta documentazione o, comunque, di avergli sollecitato l’esibizione in tempo utile per poterla utilizzare in giudizio.
La censura è fondata.
Come questa Corte ha più volte chiarito, nell’adempimento dell’incarico professionale conferitogli, l’obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, ed all’art. 2236 c.c. impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) i doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l’onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente, al riguardo, dovendo ritenersi il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all’esercizio dello jus postulandi, attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l’assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull’opportunità o meno d’iniziare un processo o intervenire in giudizio (v. Cass. 19/07/2019, n. 19520; 20/11/2009, n. 24544; 30/07/2004, n. 14597).
Nel caso di specie non può dubitarsi che l’eventuale esistenza di pagamenti (e dell’eventuale relativa documentazione) da parte dell’ [Omissis] in favore della società controparte del giudizio arbitrale costituisse circostanza per nulla marginale da verificare nell’adempimento, da parte dell’Avv. [Omissis], della prestazione professionale ad essa richiesta, volta che si trattava di resistere alla domanda di quella società, che assumeva essere dell’ [Omissis] creditrice.
Rientrava, dunque, certamente tra le prime e più banali informazioni che, nella preliminare impostazione della strategia difensiva e nel corso della sua successiva attuazione, il difensore avrebbe dovuto raccogliere dal cliente, quella volta ad appurare se egli avesse effettuato dei pagamenti in acconto, per quale ammontare e se ne conservasse la relativa documentazione.
Correlativamente, in base al suesposto principio, e secondo il generale criterio di riparto dell’onere della prova in tema di responsabilità da inadempimento (Cass. Sez. U. n. 13533 del 30/10/2001), era onere dell’avvocato, evocato in giudizio per responsabilità professionale, dar prova di avere diligentemente operato in tal senso ed allegare e dimostrare, dunque, che la tardiva produzione nel giudizio arbitrale di quella documentazione fosse dipesa da fatto a lui non imputabile, eventualmente rappresentato dalla condotta dello stesso cliente che, ad es., richiesto di dare notizie in merito all’esistenza di pagamenti parziali, avesse omesso di darne alcuna indicazione, o avesse dato risposta negativa, o che ancora, richiesto di consegnare prova documentale di tali pagamenti, avesse omesso o tardato a darla.
Dell’esistenza o prova di tali allegazioni difensive da parte dell’appellata non si ha però alcuna traccia in sentenza (né, per vero, negli atti di parte).
La Corte di merito, come detto, si limita a dar rilievo al fatto che l’attore/appellante non avesse dato prova di avere consegnato la detta documentazione al proprio legale. Alla stregua del richiamato principio, però, l’onere in capo all’attore di dar prova di ciò sarebbe scattato (alla stregua di una controprova) solo se e in quanto il difensore avesse dedotto e dimostrato di avere informato dell’importanza di una tale eventuale documentazione e, avuta contezza della sua esistenza, gliene avesse invano fatto richiesta.
In mancanza, dunque, di alcun accertamento in tal senso, la decisione si rivela, sul punto, ispirata ad una erronea regola di giudizio e va pertanto cassata.
6. É fondato anche il secondo motivo di ricorso.
Occorre premettere che – al di là dell’erroneo ma ininfluente riferimento alle previsioni di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, anziché al n. 4 (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931) – non è dubitabile che la censura segnali, in sostanza, un vizio di omessa pronuncia.
Tanto si ricava chiaramente da quanto dedotto a pag. 16 del ricorso, là dove si rileva (testualmente) che “i giudici di secondo grado (…) pur dando atto nella gravata sentenza (pag. 6) del precitato motivo d’appello hanno, tuttavia, omesso di pronunciarsi al riguardo” (così, in grassetto, nel ricorso).
L’affermazione, immediatamente successiva, secondo cui “la totale carenza di motivazione determina la contestata violazione prevista dall’art. 360 c.p.c., comma 5, essendo il fatto di coprire decisivo per il giudizio”, null’altro costituisce se non evidentemente una mera (erronea) qualificazione del vizio subito prima dedotto che, come noto, non vincola il giudice di legittimità, chiamato a ricondurre la doglianza, una volta che ne sia fedelmente ricostruito il significato sostanziale, alla previsione corrispondente.
Deve altresì ritenersi assolto l’onere di specificità richiesto ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 (che, come noto, nel caso di denuncia di omessa pronuncia, si declina nel senso che la domanda o eccezione o motivo di appello non esaminati siano riportati puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica altresì dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività).
Nell’esposizione del fatto il ricorrente ha infatti indicato il contenuto del motivo d’appello in questione (v. pag. 8, lett. b) ed ha poi indicato, nella illustrazione del motivo di ricorso (v. pag. 16), il luogo ove tale motivo era riportato in sentenza.
L’una e l’altra indicazione, insieme, consentono di verificare, con l’immediatezza cui l’onere predetto è strumentale, sia il contenuto del motivo, sia l’effettività della sua tempestiva proposizione con l’atto d’appello.
Ciò premesso non resta che rilevare che il vizio di omessa pronuncia è effettivamente sussistente.
La sentenza impugnata, invero, pur avendo, come detto, dato atto, nella premessa espositiva, della proposizione del motivo di gravame, omette tuttavia di pronunciarsi in alcun modo, né direttamente, né indirettamente, su di esso.
7. La memoria depositata dalla controricorrente, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., non offre argomenti che possano indurre a diversa valutazione.
Essa, inoltre, con riferimento al primo motivo, prospetta circostanze e questioni (nei precedenti gradi di giudizio non sarebbe stata mai proposta una doglianza per mancata produzione delle fatture; l’ [Omissis] non aveva fornito la documentazione nemmeno al proprio consulente) che non risultano trattate in sentenza (che, quanto alla prima almeno, postula anzi il contrario) e nemmeno nel controricorso.
8. In accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso la sentenza impugnata va pertanto cassata, restando conseguentemente assorbito l’esame del terzo motivo, sull’onere delle spese processuali, dovendo sul relativo regolamento nuovamente provvedere il giudice di rinvio, cui può anche demandarsi di provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di [Omissis] in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.