Danno da concessione abusiva di credito e legittimazione attiva del curatore fallimentare Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 30/06/2021, n. 18610

By | 06/07/2021

CASS. CIV., SEZ. I, ORDINANZA 30/06/2021, N. 18610

«L’erogazione del credito che sia qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività d’impresa.

Non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi.

Il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.

La responsabilità in capo alla banca, qualora abusiva finanziatrice, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 I. fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fatti causatori del medesimo danno, senza che, peraltro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di mero litisconsorzio facoltativo.»

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del [Omissis], n. [Omissis], la Corte d’appello di [Omissis] ha respinto l’impugnazione avverso la decisione del Tribunale di [Omissis] del 28 maggio 2010, la quale aveva dichiarato inammissibili le domande proposte dal Fallimento [Omissis] s.p.a. contro [Omissis] s.p.a., [Omissis] s.p.a., [Omissis] s.p.a., [Omissis] s.p.a. e [Omissis] s.p.a., volte all’accertamento della nullità dei contratti di finanziamento e della “convenzione” ad essi relativa, conclusa il 4 settembre 1997, con la condanna alla restituzione degli interessi pagati, o, in subordine, al risarcimento del danno da concessione abusiva di credito, indicato in € 23.367.245,34, pari al depauperamento del patrimonio netto della società.

La corte territoriale ha ritenuto la curatela priva di legittimazione ad agire con riguardo alla domanda di risarcimento del danno e reintegrazione del patrimonio della società fallita, eroso a causa dell’abusiva concessione di credito da parte delle banche. Ciò, in quanto la procedura ha agito deducendo non l’attività illecita compiuta dalla stessa società fallita tramite i suoi amministratori, rientrante nell’art. 146 I. fall., ma un’autonoma e distinta attività imputata alle singole banche, onde si tratta di azione estranea alla norma menzionata; mentre il curatore, per essere legittimato attivo all’azione verso i terzi, «deve azionare una pretesa che si colleghi direttamente e primariamente su un fatto (illecito o meno) commesso “anche” dalla società fallita tramite i suoi amministratori (cui ascrivere una delle responsabilità previste agli art. 2393 e 2394 c.c.)», dovendo quindi coinvolgere il terzo in concorso con il fallito e provare tale concorso, che abbia cagionato un danno alla massa dei creditori.

Invece, nella specie, il curatore ha dedotto il compimento di un atto autonomo rispetto a quelli gestòri compiuti dagli organi sociali, come risulta dalla citazione introduttiva, in cui la curatela ha allegato che la società ha visto progressivamente erodere la propria consistenza patrimoniale a causa dei prestiti concessi e dei relativi oneri finanziari, con gravi perdite, sino all’azzeramento del capitale sociale: quindi, la procedura non ha proposto un’azione di responsabilità anche nei confronti degli amministratori della fallita, ma solo un’azione di responsabilità aquiliana contro le banche; né rileva la costituzione di parte civile in sede penale nel giudizio a carico degli amministratori, in mancanza della proposizione anche dell’azione civile contro costoro.

Infine, solo in appello la curatela ha inteso far emergere anche l’azione per i fatti illeciti degli amministratori, in violazione dell’art.345 c.p.c.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione il fallimento soccombente, sulla base di tre motivi.

Resistono con distinti controricorsi le banche intimate. Le parti hanno depositato anche le memorie di cui all’art. 380- bis.1 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Infondatezza dell’eccezione di [Omissis] s.p.a. L’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione proposta verso la [Omissis] s.p.a., dalla medesima formulata, è infondata.

Si duole la controricorrente che – pur avendo essa partecipato al giudizio in primo grado mediante la propria mandataria [Omissis] s.p.a. ed a quello di secondo grado mediante la mandataria [Omissis] s.p.a. – il ricorso per cassazione sia stato, invece, proposto nei confronti di «[Omissis] s.p.a. (incorporante [Omissis] s.p.a. che aveva incorporato [Omissis] s.p.a. e [Omissis] s.p.a.)», senza che risponda al vero detta incorporazione di essa controricorrente, con conseguente violazione dell’art. 366, comma 1, n. 1, c.p.c., per inadeguata ed incerta indicazione delle parti, nonché mancata effettiva proposizione del ricorso anche nei propri confronti.

Rileva il Collegio come, al contrario, la parte in questione sia stata senza equivoci individuata, non sorgendo dubbio sulla titolarità della posizione soggettiva passiva de qua, che è la medesima già evocata nei precedenti gradi di giudizio; né l’errore fattuale compiuto dal ricorrente – laddove ha presunto una fusione per incorporazione della [Omissis] s.p.a. in [Omissis] s.p.a., in luogo della mera veste di mandataria di quest’ultima – è tale da avere creato una insuperabile incertezza del soggetto, quale controparte nel processo di legittimità. A ciò si aggiunga che il ricorso è stato regolarmente notificato al difensore dei precedenti gradi: a conferma dell’insussistenza di nient’altro che una mera irregolarità, inidonea a cagionare l’inesistenza o l’inammissibilità dell’impugnazione proposta.

Va data continuità, pertanto, all’orientamento di questa Corte, secondo cui è infondata l’eccezione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso per cassazione, per recare una errata intestazione della parte contro cui è proposto, qualora esso sia stato notificato proprio al soggetto che era stato parte in causa nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e che, resistendo nel grado di giudizio dì legittimità, dopo avere proposto l’eccezione per il motivo sopra esposto, si sia difeso nel merito; ogni nullità o irregolarità dell’atto di impugnazione rimane, invero, così sanata ai sensi dell’art.156 c.p.c., avendo l’atto medesimo raggiunto lo scopo cui era destinato e non potendovi essere incertezza circa il destinatario (Cass. 6 febbraio 2018, n. 2827; Cass. 11 giugno 2007, n. 13620).

E va, altresì, confermato il diuturno principio secondo cui, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., il ricorso per cassazione è inammissibile solo qualora manchi o vi sia incertezza assoluta sull’identificazione delle parti contro cui esso è diretto; mentre ai fini dell’osservanza della norma predetta, non è necessario che le relative indicazioni siano premesse all’esposizione dei motivi di impugnazione o che siano altrove esplicitamente formulate, essendo sufficiente, analogamente a quanto previsto dall’art. 164 c.p.c., che esse risultino in modo chiaro e inequivoco (e non, dunque, ingannevole), anche se implicitamente, dal contesto del ricorso, nonché dal riferimento ad atti dei precedenti gradi di giudizio, da cui sia agevole identificare con certezza la parte intimata (e multis, Cass. 7 settembre 2009, n. 19286; Cass. 21 febbraio 2006, n. 3737, ove mancava addirittura, nell’epigrafe del ricorso, l’indicazione di qualsiasi parte intimata; Cass. 21 luglio 2004, n. 13580; Cass. 11 febbraio 1994, n. 1389; Cass. 11 aprile 1983, n. 2541; Cass. 9 luglio 1982, n. 4081; Cass. 18 maggio 1982, n. 3061; Cass. 21 gennaio 1981, n. 510).

Questa la situazione nel caso di specie, in cui dal contenuto del ricorso e dalla sentenza impugnata, in esso richiamata, risulta in modo inequivoco sia il novero dei soggetti intimati, sia la precisa natura delle doglianze mosse.

2. – I motivi del ricorso. I motivi del ricorso deducono:

1) violazione dell’art. 345 c.p.c., per la ritenuta novità della domanda volta al risarcimento del danno patito dalla società alla sua consistenza patrimoniale in concorso con gli amministratori, avendo la corte territoriale errato nell’interpretare l’azione proposta, dal momento che, sin dall’atto di citazione, la procedura ha agito per ottenere la reintegrazione del patrimonio della società fallita depauperato per fatti imputabili agli amministratori in concorso con le banche, attesa l’abusiva concessione di credito, avendo ivi lamentato il crescere degli «oneri finanziari» della società, che avevano inciso «sulla consistenza patrimoniale di quest’ultima in modo fortemente negativo», donde «l’interesse della Curatela a far valere, nel presente giudizio, la responsabilità delle convenute – oltre a quella, cui gli amministratori di [Omissis] s.p.a. sono già stati chiamati – avendo le banche, con il loro colpevole comportamento, contribuito in modo determinante ad arrecare ingiusto pregiudizio alla consistenza del patrimonio della suddetta Società», e dove il riferimento era al decreto di rinvio a giudizio degli amministratori, da parte del G.u.p. presso il Tribunale di [Omissis], per il ricorso abusivo al credito bancario; né la curatela aveva l’onere di menzionare, con formula sacramentale, l’art. 146 I. fall., dovendo il giudice valutare il contenuto della domanda e non essendosi trattato della deduzione di un’attività autonoma, ossia spontanea o unilaterale, delle banche, ma di un’attività collegata agli illeciti commessi dagli amministratori della fallita;

2) violazione o falsa applicazione degli artt. 2055 c.c., 102 c.p.c. e 146 I. fall., in quanto il mancato coinvolgimento degli amministratori non muta la natura dell’azione proposta verso le banche, meri litisconsorti facoltativi;

3) violazione o falsa applicazione degli artt. 2 Cost., 1175, 1375 e 2043 c.c., 43, 146, 217, 218 e 240 I. fall., essendo la funzione del curatore quella di conservare il patrimonio del debitore, quale garanzia del diritto della massa dei creditori, attraverso l’esercizio delle c.d. azioni di massa, dirette ad ottenere, nell’interesse dei creditori, la ricostituzione del patrimonio del fallito; la concessione di finanziamenti abusivi reca danno al patrimonio dell’imprenditore, in quanto l’erogazione di nuova finanza o la conservazione delle linee di credito preesistenti ne permette la permanenza in attività e l’ulteriore aggravamento del dissesto, donde il normale subentro del curatore nel diritto a far valere il diritto alla reintegrazione del patrimonio dell’imprenditore, a norma dell’art. 43 I. fall., con responsabilità delle banche ex art. 2043 c.c. verso il fallimento, che è soggetto terzo; inoltre, l’art. 240 I. fall., con il sancire il potere del curatore di costituirsi parte civile anche per i reati di cui agli artt. 217 e 218 I. fall., conferma il diritto al ristoro dei danni ingiusti, di cui la curatela è legittimata a chiedere il risarcimento.

3. – La c.d. abusiva concessione di credito. I tre motivi possono essere trattati congiuntamente perché, pur deducendo essi la violazione di norme eterogenee, mirano ad affermare il principio che il curatore fallimentare sia legittimato ad agire contro le banche per il danno da queste cagionato con l’abusiva concessione del credito al patrimonio del soggetto fallito.

Essi sono fondati, nei limiti di séguito esposti.

3.1. – L’abusivo ricorso al credito. La condotta di abusivo ricorso al credito è prevista dall’art. 218 I. fall., il quale sanziona gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza.

La stessa disposizione è contenuta nell’art. 325 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Più in generale, al di fuori della “dissimulazione” del dissesto, l’art. 216, comma 3, I. fall., che prevede il reato di bancarotta fraudolenta, sanziona il fallito che allo scopo di favorire alcun creditore «esegue pagamenti o simula titoli di prelazione», e l’art. 217, comma 1, nn. 3 e 4, in tema di bancarotta semplice, sanziona il soggetto che «ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento» o «ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa».

3.2. – La fattispecie della concessione abusiva di credito.

3.2.1. – I doveri dell’operatore bancario. In simmetria con quelle, da tempo è stata individuata una condotta, del pari illecita, di chi tale credito conceda, qualificata come “concessione abusiva di credito”: con essa, specularmente, si designa l’agire del finanziatore che conceda, o continui a concedere, incautamente credito in favore dell’imprenditore che versi in istato d’insolvenza o comunque di crisi conclamata.

Nell’integrazione della fattispecie, rilievo primario assumono, accanto alla regola generale del diritto delle obbligazioni relativa all’esecuzione diligente della prestazione professionale ex art. 1176 c.c., la disciplina primaria e secondaria di settore e gli accordi internazionali.

Il soggetto finanziatore, sulla base di questa, è invero tenuto all’obbligo di rispettare i principi di c.d. sana e corretta gestione, verificando, in particolare, il merito creditizio del cliente in forza di informazioni adeguate.

Il principio della «sana e corretta gestione» è ripetuto, quale criterio essenziale per tali imprenditori, in numerose norme del testo unico bancario, con le relative disposizioni di attuazione: come essenziale finalità della vigilanza in capo alle autorità creditizie (art. 5 t.u.b.); requisito per l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria (art. 14, comma 2), di intermediario finanziario (art. 107), istituto di moneta elettronica (art. 114-quinquies) o istituto di pagamento (art. 114-nonies); presupposto per l’autorizzazione all’acquisizione di partecipazioni in una banca (artt. 19, 25), a modificazioni statutarie (art. 56), alla fusione e scissione (art. 57); compito degli esponenti aziendali (art. 26) e ragione della loro rimozione dalla carica, ove la permanenza nella stessa sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione (artt. 53-bis, 67-ter, 108, 114-quinquies.2, 114- quaterdecies).

A rafforzamento di tali concetti, gli artt. 53, 67, 108, 114- quinquies.2 e 114-quaterdecies t.u.b. prevedono la vigilanza regolamentare della Banca d’Italia mediante disposizioni sul «contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni».

Analoghe disposizioni sono previste nel testo unico della finanza e nel codice delle assicurazioni private, tutte relative all’operatività sul mercato dei soggetti nel settore finanziario.

Si noti, infine, come – in funzione dei suoi compiti – la Banca d’Italia abbia anche accesso al “Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi”, al fine di utilizzarne i dati nello svolgimento delle funzioni di vigilanza, a tutela della sana e prudente gestione degli intermediari vigilati e della stabilità complessiva (art. 3, d.l. 3 maggio 2016, n. 59, Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione, convertito, con modificazioni, in I. 30 giugno 2016, n. 119).

Un’indicazione dei metodi di ponderazione dei rischi è contenuta negli accordi di Basilea; si ricorda, altresì, l’art. 142 del Regolamento UE n. 575/2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, laddove descrive il metodo basato sui rating interni, ai fini della valutazione delle esposizioni di credito: ivi si afferma che si intende per «”sistema di rating”, l’insieme di metodi, processi, controlli, meccanismi di raccolta dati e sistemi informativi che fungono da supporto alla valutazione del rischio di credito, all’attribuzione delle esposizioni a classi o pool di rating e alla stima quantitativa dei default e delle perdite per un dato tipo di esposizione».

In sostanza, dal sistema normativo nel suo complesso emerge la rilevanza primaria per l’ordinamento dell’obbligo di valutare con prudenza, da parte dell’istituto bancario, la concessione del credito ai soggetti finanziati, in particolare ove in difficoltà economica.

3.2.2. – Obblighi legali primari violati ed obbligazione risarcitoria ex art. 1173 c.c. È vero che tale obbligo è posto, dal diritto positivo, ai fini della protezione dell’intero sistema economico dai rischi che una concessione imprudente o indiscriminata del credito bancario comporta.

Nondimeno, l’erogazione del credito, che sia qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata a chi si palesi come non in grado di adempiere le proprie obbligazioni ed in istato di crisi, ad esempio in presenza della perdita del capitale sociale e in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi stessa, può integrare anche l’illecito del finanziatore per il danno cagionato al patrimonio del soggetto finanziato, per essere venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione aziendale, previsti a tutela del mercato e dei terzi in genere, ma idonei a proteggere anche ciascun soggetto impropriamente finanziato ed a comportare la responsabilità del finanziatore, ove al patrimonio di quello sia derivato un danno, ai sensi dell’art. 1173 c.c.

Onde le prescrizioni di vigilanza divengono rilevanti nella valutazione relativa alla violazione di obblighi primari, ai fini dell’individuazione di una responsabilità alla stregua della diligenza professionale dovuta ai sensi degli artt. 1176, comma 2, e 2082 c.c.

Questa Corte ha da tempo osservato come, sebbene nel nostro ordinamento non esista un generale dovere, a carico di ciascun consociato, di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, tuttavia vi sono molteplici situazioni da cui nascono, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la conseguente responsabilità: in particolare, dalla normativa che regola il sistema bancario vengono imposti, a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi operano, comportamenti in parte tipizzati, in parte enucleabili caso per caso, la cui violazione può costituire culpa in omittendo (cfr. Cass. 8 gennaio 1997, n. 72; Cass. 13 gennaio 1993, n. 343), potendosi così ravvisare la violazione dei doveri gravanti sul soggetto “banca” a causa del proprio status (Cass. 13 gennaio 1993 n. 343, cit.).

Dall’ordinamento settoriale del credito derivano, dunque, obblighi comportamentali, la cui violazione integra la nozione di «altro atto o fatto idoneo.. in conformità dell’ordinamento giuridico» a costituire fonte di obbligazioni fra soggetti determinati.

Si è discorso, quindi, del rilievo dello status del soggetto imprenditore bancario: di esso parla già la menzionata decisione (Cass. 13 gennaio 1993, n. 343), a proposito dell’imprenditore bancario che tenga una condotta «sostanziatasi nell’omissione della gamma di cautele imposte alle aziende che esercitano il credito» e «nella violazione dei doveri gravanti sul soggetto “banca” a causa del proprio “status”».

Sul medesimo gravano, in tal modo, obblighi di comportamento più specifici di quello comune del neminem laedere.

Dato che l’attività di concessione del credito da parte degli istituti bancari non costituisce mero “affare privato” tra le stesse parti del contratto di finanziamento, l’ordinamento ha predisposto una serie di principi, controlli e regole, nell’intento di gestire i rischi specifici del settore, attese le possibili conseguenze negative dell’inadempimento non solo nella sfera della banca contraente, ma ben oltre di questa; potendo, peraltro, queste coinvolgere in primis il soggetto finanziato, nonché, in una visuale macroeconomica, un numero indefinito di soggetti che siano entrati in affari col finanziato stesso.

3.3. – La diminuita consistenza del patrimonio sociale per la protrazione dell’attività d’impresa. Per quanto riguarda i profili civili risarcitori, dalle condotte di abusivo ricorso e di abusiva concessione del credito, nel senso ora ricordato, possono derivare danni alla società amministrata o finanziata: in particolare, danno tipicamente ricollegato a tali condotte è, sul piano economico, la diminuita consistenza del patrimonio sociale e, sul piano contabile, l’aggravamento delle perdite favorite dalla continuazione dell’attività d’impresa.

La vicenda ricorda la fattispecie dell’art. 2449 c.c., nel testo ante riforma del diritto societario, che poneva il divieto di «nuove operazioni» dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società (cfr., in tema, Cass. 29 ottobre 2013, n. 24362; Cass. 4 luglio 2012, n. 11155) e dove il danno veniva sovente individuato nella differenza tra il valore del patrimonio netto rettificato, risultante dal bilancio dell’esercizio in cui il capitale era divenuto inferiore al minimo legale, e quello rilevato nel primo bilancio fallimentare.

Regola in parte analoga è stata introdotta nell’art. 2486 c.c. dalla riforma del 2003, limitandosi i «poteri degli amministratori», dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, agli atti volti alla «conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale» ed ora espressamente prevedendo, al suo terzo comma – aggiunto dall’art. 378 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – che il danno risarcibile «si presume» pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data di apertura della procedura e il patrimonio netto «determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’art. 2484, detratti i costi», persino ammettendo che, ove manchino o siano inutilizzabili a tal fine le scritture contabili, il danno sia liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.

Il nuovo art. 2086, comma 2, c.c., nel testo introdotto dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, ha anticipato tale dovere di rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, imponendo l’adozione di un «assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato» e l’attivazione «di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale», secondo concetti già emersi con la riforma del diritto societario all’art. 2381 c.c.

Se, poi, si assume la prospettiva dalla parte del ceto creditorio, il pregiudizio deriva, oltre che dalle ulteriori perdite cagionate dal protrarsi della gestione con incidenza sulla stessa capacità di adempimento del debitore, anche ad esempio dall’avere, se del caso, reso impossibile esercizio delle azioni revocatorie.

3.4. – La responsabilità degli organi sociali. Nei confronti degli amministratori, dei direttori generali e dei liquidatori, che con tale condotta abbiano cagionato un danno alla società o ai creditori ex art.2393 e 2394 c.c., questi potrebbero esercitare le azioni di responsabilità, e, quindi, il curatore azionare le azioni previste dagli artt. 2394-bis c.c. e 146 I. fall.

Al riguardo, questa Corte (Cass. 20 aprile 2017, n. 9983) ha già condivisibilmente affermato che – come costituisce reato ex art. 218 I. fall. il fatto degli amministratori che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza – così tale condotta integra un illecito civile per i danni cagionati alla società amministrata, come pure ai terzi.

3.5. – La responsabilità del finanziatore.

3.5.1. – I presupposti. Inoltre, la società o i terzi potrebbero ritenere responsabili le stesse banche finanziatrici, in forza dell’illecito sostegno finanziario all’impresa per la concessione o la reiterata concessione del credito, dei danni loro cagionati.

Si tratta della condotta della banca, dolosa o colposa, diretta a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore in istato di dissesto, in tal modo cagionando al patrimonio del medesimo un danno, pari all’aggravamento del dissesto, in forza degli stessi interessi passivi del finanziamento non compensati dagli utili da questo propiziati, nonché delle perdite generate dalle nuove operazioni così favorite.

3.5.2. – Il favor normativo per il finanziamento a tini di risanamento dell’impresa. Per vero, il legislatore da tempo mostra un netto favor verso il sostegno finanziario dell’impresa, ai fini della risoluzione della crisi attraverso istituti che ne scongiurino il fallimento, favorendo la maggiore soddisfazione dei creditori: si pensi ai finanziamenti prededucibili nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, di cui agli artt. 182-quater, 182- quinquies I. fall., ed ora artt. 99 e 101 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d’impresa; si pensi pure ai piani attestati di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), I. fall., artt. 56 e 284 d.lgs. n. 14 del 2019, nonché alla generale esenzione da revocatoria di cui all’art. 67, comma 3, lett. e) per gli atti compiuti in esecuzione del concordato o dell’accordo omologato di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182-bis I. fall., ed, ora, art. 166, comma 3, d.lgs. n. 14 del 2019; ed, infine, alla convenzione di moratoria di cui all’art. 182-septies I. fall., introdotto dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. in I. 6 agosto 2015, n. 132, ed ora art. 62 d.lgs. 14 del 2019, diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi attraverso una moratoria temporanea dei crediti, che, nella versione delle legge fallimentare (mentre il codice della crisi ha generalizzato l’istituto per tutti i creditori), sussistono in capo alle banche e agli intermediari finanziari ex art. 106 t.u.b., in vista della predisposizione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, al fine di superare la situazione di difficoltà e la crisi di liquidità; nel nuovo codice della crisi, si veda lo stesso art. 12, comma 3, d.lgs. n. 14 del 2019, il quale, in àmbito di procedura di allerta, dispone espressamente che essa non costituisce «causa.. di revoca degli affidamenti bancari concessi».

Esemplare di tale atteggiamento è stata l’introduzione dell’art. 217-bis I. fall., inserito dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in I. 30 luglio 2010, n. 122 e poi modificato nel 2012, che ha previsto l’esenzione dai reati di bancarotta di cui agli artt. 216, comma 3, e 217 I. fall. in caso di pagamenti ed operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o del piano attestato di risanamento, potendo dunque fruire della esenzione anche la condotta della banca concorrente.

Al fine della precoce emersione delle difficoltà finanziarie e delle relative informazioni, quale contributo al corretto funzionamento del mercato, opera la direttiva UE n. 1023/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza, la quale pone, tra i principi generali, i c.d. quadri di ristrutturazione preventiva, secondo cui ogni Stato membro predispone gli strumenti di allerta precoce, che siano chiari e trasparenti, nonché in grado di individuare situazioni che potrebbero comportare la probabilità di insolvenza e di segnalare al debitore la necessità di agire senza indugio.

L’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 14 del 2019 trova dunque un precedente nei principi espressi dalla direttiva, il cui art. 7, comma 5 prevede la vigilanza degli Stati membri affinché i creditori non realizzino condotte di risoluzione o recesso dal contratto contro i debitori che abbiano fatto accesso a «strumenti di ristrutturazione preventiva».

Infine, non si può sottacere che la legislazione dell’emergenza sanitaria del 2020 ha imposto ulteriori compiti e divieti alle banche, proprio nel senso del sostegno alle imprese.

In sostanza, numerosi sono i momenti in cui l’ordinamento positivo mostra di tutelare e favorire il finanziamento alle imprese in crisi, articolando le previsioni in relazione allo strumento di risoluzione della crisi prescelto ed alla funzione svolta dal finanziamento: la c.d. finanza-ponte, strumentale a pervenire con successo ad uno degli istituti di risanamento previsti dalla legge (cfr. art. 182-quater, comma 2, I. fall.); la c.d. finanza interinale, funzionale al giudizio di omologazione in corso di procedura, in via ordinaria o urgente (ex art. 182-quinquies, commi 1 e 3, I. fall.); infine, i finanziamenti in esecuzione dello strumento giuridico di risoluzione della crisi attuato, che mirano al risanamento secondo il piano predisposto dall’imprenditore (ex art. 182-quater, comma 1, I. fall.). Donde, di volta in volta, le norme speciali di tutela della posizione del finanziatore.

3.5.3. – Bilanciamento degli interessi nella distinzione tra finanziamento “lecito” e finanziamento “abusivo”. Tale sistema è, come si vede, ispirato all’opposto principio della meritevolezza dell’ausilio creditizio all’impresa in crisi, allo scopo di evitarne il fallimento e soddisfare meglio i creditori, tanto da indurre il dubbio della sua compatibilità con la predetta responsabilità dell’operatore bancario per l’incauto finanziamento: compatibilità tuttavia ritrovata, ove solo si consideri che, in tutti quei casi, si tratta di norme speciali che introducono meccanismi procedimentalizzati e fondati su precisi presupposti e controlli, idonei a renderli utili, per definizione, allo scopo di un progetto economico-finanziario volto al recupero della continuità aziendale, e non, piuttosto, fattori di mero aumento del dissesto.

Da quel sistema si traggono, anzi, utili indicazioni al tema in discorso.

Infatti, esso vale a chiarire come, e la Corte lo ha già rilevato (cfr. Cass. 5 agosto 2020, n. 16706), gli istituti di ordinario supporto ai deficit di liquidità delle imprese in crisi stiano proprio ad indicare il necessario spazio, anche ai sensi dell’art. 41 Cost., di un possibile e lecito finanziamento all’impresa in crisi, non solo nell’ambito dei negozi connotati da un formalizzato progetto di sostegno alle medesime, ma anche al di fuori di essi; sino al limite, tuttavia, in cui tali condotte finiscano per alterare – con colpa o dolo – «la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto».

Vero è che, di fronte alla richiesta di una proroga o reiterazione di finanziamento, la scelta del “buon banchiere” si presenta particolarmente complessa: astretto com’è tra il rischio di mancato recupero dell’importo in precedenza finanziato e la compromissione definitiva della situazione economica del debitore, da un lato, e la responsabilità da incauta concessione di credito, dall’altro lato.

Onde ogni accertamento, ad opera del giudice del merito, dovrà essere rigoroso e tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, secondo il suo prudente apprezzamento, soprattutto ai fini di valutare se il finanziatore abbia (a parte il caso del dolo) agìto con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento.

Tale seconda situazione potrà, ad esempio, verificarsi ove la banca – pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa – abbia operato nell’intento del risanamento aziendale, erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile.

È peraltro richiesto che, nella formulazione delle proprie valutazioni, la banca proceda secondo lo standard di conoscenze e di capacità, alla stregua della diligenza esigibile da parte dell’operatore professionale qualificato, e ciò sin dall’obbligo ex ante di dotarsi dei metodi, delle procedure e delle competenze necessari alla verifica del merito creditizio.

Sarà compito del giudice del merito individuare lo spazio ammissibile per il finanziamento lecito, allorché, pur se concesso in presenza di una situazione di difficoltà economico-finanziaria dell’impresa, sussistevano ragionevoli prospettive di risanamento.

Quel che rileva, dunque, non è più il fatto in sé che l’impresa finanziata sia in istato di crisi o d’insolvenza, pur noto al finanziatore, onde questi abbia così cagionato un ritardo nella dichiarazione di fallimento: quel che rileva è unicamente l’insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi.

In sostanza, sovente il confine tra finanziamento “meritevole” e finanziamento “abusivo” si fonderà sulla ragionevolezza e fattibilità di un piano aziendale.

Al riguardo, un criterio di diritto positivo può essere rinvenuto nell’art. 67 I. fall.: il quale, similmente agli artt. 56 e 284 d.lgs. n. 14 del 2019, menziona il piano «che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria».

Un utile ausilio, in tal senso, può trarsi altresì dai criteri enunciati dall’art. 69 -quinquiesdecies t.u.b., introdotto dal d.lgs. 16 novembre 2015, n. 181: norma che, sia pure nell’ambito del “sostegno finanziario” infragruppo, indica le condizioni in cui esso è lecito, proprio enunciando i criteri in base a cui «si può ragionevolmente prospettare che il sostegno fornito ponga sostanziale rimedio alle difficoltà finanziarie del beneficiario» e «vi è la ragionevole aspettativa., che sarà pagato un corrispettivo e rimborsato il prestito da parte della società beneficiaria».

L’intrinseca ragionevolezza di tali criteri può, dunque, offrire logici parametri anche per la valutazione del caso in esame.

Onde, allorché la banca effettui finanziamenti all’impresa in istato di crisi, vuoi all’interno di una soluzione concordata, vuoi indipendentemente da essa, quello indicato potrà costituire il parametro per valutare la ravvisabilità, oppure no, di una responsabilità per concessione abusiva di credito; dovendosi, peraltro, osservare come, in ipotesi di procedura formalizzata e sottoposta a controlli esterni, i margini di tale responsabilità saranno, in concreto, alquanto ristretti.

3.6. – La legittimazione attiva del curatore fallimentare.

3.6.1. – La legittimazione per il danno alla società. In caso di fallimento, per il ristoro di tale pregiudizio è legittimato ad agire lo stesso curatore fallimentare, anzitutto al medesimo titolo per il quale avrebbe potuto agire l’imprenditore danneggiato.

Al riguardo, il Collegio intende idealmente ricollegarsi ai precedenti di questa Corte che, operando opportuni distinguo quanto alle domande proposte nel processo ed alle vicende esaminate, rispetto alle pronunce delle Sezioni unite del 2006 (Cass., sez. un., 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030 e 7031), hanno reputato proponibile l’azione risarcitoria del curatore nei confronti delle banche per l’imprudente concessione del finanziamento.

In tal senso, dapprima Cass. 10 giugno 2010, n. 13413 ha chiarito che il curatore è legittimato ad agire nei confronti della banca «quale responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita dall’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della stessa società, senza che possa assumere rilievo il mancato esercizio dell’azione anche contro l’amministratore infedele»; pur avendo ivi concluso per l’inammissibilità del motivo, che non riportava in modo autosufficiente l’avvenuta proposizione della domanda contro la banca.

Quindi, Cass. 20 aprile 2017, n. 9983 ha reputato la legittimazione attiva del curatore nell’azione di risarcimento del danno nei confronti della banca, quando la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, che abbia perduto interamente il capitale, dinanzi all’avventata richiesta di credito e ad una parimenti avventata concessione di credito da parte della banca.

Non prendono, invece, posizione sul punto altre decisioni, reputando inammissibile il motivo relativo, in quanto, secondo l’una, «[p]er ritenere che la legittimazione del commissario straordinario si fondi sul subentro dello stesso nell’amministrazione del patrimonio dell’imprenditore, evidentemente sulla base dell’art. 43 I. fa/I., è necessario presupporre la titolarità del diritto all’integrità patrimoniale in capo all’imprenditore e che l’azione risarcitoria sarebbe stata proponibile prima della dichiarazione di fallimento. Tale premessa a sua volta presuppone che un danno diretto ed immediato al patrimonio dell’impresa si sia verificato per effetto dell’abusiva concessione di credito. Tale presupposto di fatto non risulta accertato dal giudice di merito» (Cass., 2 maggio 2017, n. 11798, non massimata), e, secondo le altre, «costituisce invece domanda nuova, inammissibile ove proposta per la prima volta nel giudizio d’appello e in sede di legittimità», quella con la quale il curatore fallimentare deduca a fondamento della sua pretesa la responsabilità del finanziatore verso il soggetto finanziato per il pregiudizio diretto ed immediato (Cass. 23 luglio 2010, n. 17284 e Cass. 13 giugno 2008, n. 16031, non massimate).

Né lo fa una più recente decisione, in quanto – pur contenendo rilevanti affermazioni in termini di disvalore della permanenza degli insolventi sul mercato, senza possibilità di risanamento o di rientro, donde il pari disvalore della condotta di chi in tale illecito concorra -, estraneo al thema decídendum ed incentrata sul tema della insinuazione al passivo del credito, dal giudice del merito ritenuto fondato su negozio dissimulante un finanziamento illecito (Cass. 5 agosto 2020, n. 16706, cit.); del pari, si è altrove trattato del danno ai singoli creditori (Cass. 14 maggio 2018, n. 11695).

Infine, circa la domanda di risarcimento del danno derivante dalla dichiarazione di fallimento, proposta nei confronti di un terzo al cui comportamento illecito sia addebitata la verificazione dello stato di insolvenza, si è già osservato, in generale, che il curatore è legittimato a far valere la responsabilità di terzi per fatti anteriori e colpevolmente causativi dello stato di insolvenza (diversi spunti in Cass. 15 giugno 2020, n. 11596, non massimata; cfr., inoltre, le ivi citate Cass. 18 aprile 2000, n. 5028; Cass. 19 settembre 2000, n. 12405; Cass. 10 gennaio 2005, n. 292; Cass. 25 marzo 2013, n. 7407; cui adde Cass. 20 maggio 1982, n. 3115).

3.6.2. – La legittimazione per conto della massa. A tale ricostruzione del sistema, occorre aggiungere ancora qualche considerazione, al fine di meglio individuare i caratteri dell’azione che compete al curatore.

Secondo i precedenti ora richiamati, il curatore è legittimato ad agire nei confronti della banca per i danni cagionati alla società fallita, ove il fallimento deduca, a fondamento della sua pretesa, la responsabilità del finanziatore verso il soggetto finanziato per il pregiudizio diretto, causato al patrimonio di questo dall’attività di finanziamento.

Non ha pregio, al riguardo, l’argomento (sia pure accolto dalle citate Cass., sez. un., 28 marzo 2006, nn. 7029, 7030, 7031, ma quale mero obiter dictum, che dunque non soggiace al limite di cui all’art. 374 c.p.c.), secondo cui la società non potrebbe essere, nel contempo, autore dell’illecito e vittima del medesimo: basti considerare che la responsabilità per l’abusivo ricorso al credito grava sugli amministratori, i quali, seppur legati da rapporto organico alla società, assumono tale responsabilità in via personale, agli effetti sia civili, sia penali; mentre la società, per la quale essi hanno agito, non per ciò solo è esclusa dal novero dei possibili soggetti danneggiati, come avviene del resto in tutti i casi in cui un atto posto in essere dagli amministratori – quindi, in nome e per conto della società – abbia cagionato un danno alla stessa società amministrata (distrazione di patrimonio, compravendita svantaggiosa, contratto in conflitto d’interessi, false dichiarazioni dei redditi da cui siano derivate sanzioni tributarie per la società, etc.); altro è poi, come oltre si dirà, il tema dell’eventuale concorso del creditore alla causazione del danno.

Tale azione – in effetti – spetta senz’altro al curatore, come successore nei rapporti del fallito, ai sensi dell’art. 43 I. fall., che sancisce, per i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, la legittimazione esclusiva del predetto, trattandosi di lesione del patrimonio dell’impresa fallita e di un diritto rinvenuto dal curatore nel patrimonio di questa.

Nel contempo, tuttavia, occorre altresì considerare come, aperto sul patrimonio del fallito il concorso dei creditori, come prevedono gli artt. 51 e 52 I. fall. questi non possono più agire individualmente in via esecutiva o cautelare sui beni compresi in quel patrimonio, ma solo partecipare al concorso.

Al curatore, invero, spetta la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art.2740 c.c., di cui tutti creditori beneficeranno; così, al curatore spettano le azioni revocatorie di cui agli artt. 2901 c.c. e 66 I. fall., nonché le azioni di responsabilità contro gli organi sociali, ivi compresa quella dei creditori per «l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale» (art. 2394-bis c.c. e 146 I. fall.).

In definitiva, è pur vero che il curatore non è legittimato all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del suo patrimonio singolo, ove quest’ultimo dovrà dimostrare lo specifico pregiudizio a seconda della relazione contrattuale intrattenuta con il debitore fallito, e ciò con specifico riguardo al diritto leso a potersi determinare ad agire in autotutela, oppure ad entrare in contatto con contraenti affidabili – posto che la concessione del credito bancario lo abbia indotto, ove creditore anteriore, a non esercitare i rimedi predisposti dall’ordinamento a tutela del credito, e, ove creditore successivo a quella concessione, a contrattare con soggetto col quale altrimenti non avrebbe contrattato – in quanto si tratta di diritto soggettivo afferente la sfera giuridica di ciascun creditore.

E, tuttavia, la situazione muta, ove si prospetti un’azione a vantaggio di tutti i creditori indistintamente, perché recuperatoria in favore dell’intero ceto creditorio di quanto sia andato perduto, a causa dell’indebito finanziamento, del patrimonio sociale, atteso che il fallimento persegue, appunto, l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori nel rispetto della par condicio.

Si tratta di un danno al patrimonio dell’impresa, con la conseguente diminuita garanzia patrimoniale della stessa, ai sensi dell’art. 2740 c.c., scaturita dalla concessione abusiva del credito, che abbia permesso alla stessa di rimanere immeritatamente sul mercato, continuando la propria attività ed aumentando il dissesto, donde il danno riflesso ai tutti i creditori.

Ecco dunque che il curatore che agisce per il ristoro del danno alla società tutela nel contempo la massa creditoria dalla diminuzione patrimoniale medesima.

Un simile danno riguarda tutti i creditori: quelli che avevano già contrattato con la società prima della concessione abusiva del credito de qua, perché essi vedono, a cagione di questa, aggravarsi le perdite e ridursi la garanzia ex art. 2740 c.c.; quelli che abbiano contrattato con la società dopo la concessione di credito medesima, perché (se è vero che a ciò possa aggiungersi pure la causa petendi di essere stati indotti in errore, ed allora individualmente, dall’apparente stato non critico della società, è pur vero che) del pari avranno visto progressivamente aggravarsi l’insufficienza patrimoniale della società, con pregiudizio alla soddisfazione dei loro crediti.

In tal modo, mediante l’esperimento dell’azione, si produrrà un beneficio per i creditori, come avviene nell’esperimento delle azioni revocatorie ed altre similari in favore della massa: in quanto per tutti i creditori, il cui credito sia sorto vuoi prima, vuoi dopo la concessione di credito imputata di abusività, se il risultato a questa eziologicamente collegato sia il compimento di ulteriore attività d’impresa con aggravamento del dissesto societario, le perdite da ciò derivate comporteranno una matematica riduzione della garanzia patrimoniale generica, l’insufficienza del patrimonio d’impresa a soddisfare i crediti, ed, in definitiva, un danno riflesso, che il curatore potrà reintegrare grazie all’azione di risarcimento del danno cagionato al patrimonio della società, anche nella sua veste di legittimato attivo per conto dei creditori.

Dalla diminuzione del patrimonio sociale, a causa della ininterrotta attività d’impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, deriveranno verosimilmente minori riparti fallimentari, quale pregiudizio al cui ristoro provvede quindi l’azione del curatore, essendo in tal caso propria dell’organo la titolarità esclusiva dell’azione risarcitoria.

L’azione si inserisce, pertanto, nell’ambito di quelle a legittimazione attiva della curatela: in tal senso, si vedano l’art. 146 I. fall. e l’art. 255 d.lgs. n. 14 del 2019, quest’ultimo espressamente attributivo al curatore della legittimazione alle azioni, fra l’altro, di cui agli artt. 2394 e 2476, comma 6, c.c. (per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, con insufficienza del medesimo a soddisfare i crediti) e all’art.2497 c.c., quanto all’azione dei creditori sociali per la lesione cagionata dalla capogruppo all’integrità del patrimonio della società. Come si osserva, al curatore sono attribuite azioni relative al risarcimento del danno al patrimonio sociale, nell’interesse dei creditori.

Che, dunque, la curatela costituisca un “centro di interessi” a sé stante emerge dal sistema della legge fallimentare: sono azioni di massa quelle degli artt. 66, 67, 146, 240 I. fall. – laddove prima del fallimento appartenevano al fallito o ai singoli creditori – ma anche le azioni di responsabilità contro il curatore revocato e contro il comitato dei creditori ex artt. 38, comma 2, e 41, comma 8, I. fall.

Tali disposizioni, nell’esprimere la medesima ratio, formano un sistema, che autorizza a non ritenerle norme eccezionali, ma piuttosto manifestazione del principio più generale, secondo cui il curatore si sostituisce al fallito ed ai creditori per le azioni che tendono a ripristinare la garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., mirando alla ricostituzione del patrimonio dell’imprenditore nell’interesse della massa. Il curatore, in sostanza, diviene titolare, per specifica “missione”, dell’interesse a conservare ed a ripristinare il patrimonio del debitore, il quale è nel contempo per definizione la “garanzia” indiscriminata del ceto creditorio.

La funzione recuperatoria della garanzia patrimoniale a tutela della par condicio creditorum è tipica dell’attività demandata dalla legge al curatore: il quale, esercitando un’azione di massa, non si sostituisce ai singoli creditori, ma amministra il patrimonio dell’impresa soggetto ad esecuzione concorsuale, recuperandolo alla sua propria funzione di garanzia.

In tal senso, si deve richiamare quanto affermato dalle Sezioni unite (cfr. Cass., sez. un., 23 gennaio 2017, n. 1641), le quali hanno rilevato come «nel sistema della legge fallimentare, difatti, la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa – finalizzate, cioè, alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari de/loro esito positivo».

Sebbene si tratti di parole riprese dalla massima – ancorché non presenti nella sentenza – di Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7029, tale concetto era stato invero espresso dalle sentenze gemelle del 2006. Queste decisioni hanno, invero, osservato quanto segue: «L’azione di massa è caratterizzata dal carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo. Essa nell’immediato perviene all’effetto di aumentare la massa attiva, quali che possano essere i limiti quantitativi entro i quali i creditori se ne avvantaggeranno. Essa tende direttamente alla reintegrazione del patrimonio del debitore, inteso come sua garanzia generica e comunque esso sarà suddiviso attraverso il riparto. Non appartiene a tale novero di azioni ogni pretesa che richiede l’accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori. Né vi appartiene ogni azione che, per quanto diffusa possa essere una specifica pretesa, necessita pur sempre dell’esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, non essendo sufficiente ad assicurarne l’eventuale beneficio la mera appartenenza ad un ceto» (così Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7029, n. 7030 e n. 7031).

Lo stesso principio è stato già altrove enunciato, affermandosi (cfr. Cass., 12 maggio 2017, n. 11798, non massimata) che «Resta quindi fermo che il curatore non è titolare di un potere di rappresentanza dei creditori, ma può al più agire con le azioni c.d. di massa, dirette ad ottenere nell’interesse del ceto creditorio in quanto tale la ricostruzione del patrimonio del debitore. Non esercita perciò un’azione dei creditori, sostituendosi a loro, ma semplicemente, amministrando il patrimonio assoggettato all’esecuzione concorsuale, tende a ricostruirlo nella funzione di garanzia che gli è propria, secondo l’archetipo dell’azione revocatoría».

E, ancora, merita richiamare il precedente di questa Corte, secondo cui l’ordinamento riconosce il «pregiudizio obiettivamente occorso alla massa dei creditori per effetto dell’incremento delle dimensioni della decozione, causato.. da condotte consapevolmente compartecipative nel mantenere al di fuori della concorsualità l’imprenditore che già versava in tutti í suoi presupposti oggettivi e che, di lì a pochi mesi, avrebbe intrapreso il percorso concordatizío, per poi fallire»; osservandosi che l’ordinamento giuridico palesa «una convergente riprovazione verso condotte di occultamento o pratiche di egoistica ritrazione d’interesse singolare a fronte di una insolvenza oramai coinvolgente in termini di rischio l’adempimento verso una massa di soggetti creditori» (Cass. 5 agosto 2020, n. 16706, che vi ha ravvisato la violazione delle regole giuridiche del buon costume).

3.6.3. – Danno al patrimonio sociale e danno collettivo al ceto creditorio. In tal modo, nell’agire per il ristoro contro il finanziatore, il curatore tutela sia la società, sia la massa creditoria dalla diminuzione patrimoniale medesima.

Invero – analogamente al sistema dell’art. 146 I. fall. – al curatore appartiene sia la legittimazione attiva a richiedere al finanziatore c.d. abusivo il risarcimento per i danni diretti cagionati alla società, sia quella per i danni indiretti alla massa dei creditori.

In entrambi i casi, il curatore non fa altro che agire a reintegrazione del patrimonio sociale pregiudicato dall’abusiva concessione del credito.

Presupposto di entrambe le azioni del curatore – quella contro gli amministratori prevista dall’art. 146 I. fall., quella contro il finanziatore abusivo secondo il diritto comune di cui agli artt. 1218/2043 c.c. – sta nella diminuzione del patrimonio sociale, per la prosecuzione dell’attività d’impresa con aggravamento del dissesto.

Il danno subito dai creditori per la ridotta capienza del patrimonio sociale ha un rilievo tipicamente collettivo, sebbene sia il riflesso, con ripercussione sull’intero ceto creditorio, di un pregiudizio prodottosi in via primaria nel patrimonio della società per effetto della continuazione dell’attività d’impresa.

Come l’art. 146 I. fall., in una con l’art. 2394-bis c.c., attribuisce proprio al curatore la legittimazione attiva per le azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393, 2393-bis e 2394 c.c. contro gli amministratori (con le analoghe azioni verso i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; e v. ora l’art. 255 d.lgs. n. 14 del 2019), sempre al curatore compete l’azione per la reintegrazione del patrimonio sociale – garanzia per l’intero ceto creditorio ai sensi dell’art. 2740 c.c. – diminuito a causa della continuazione dell’attività d’impresa favorita dall’indebito ricorso o concessione di credito.

L’importo che il curatore recupererà alla massa attiva giova, pertanto, a tutti i creditori concorrenti, perché, trattandosi del ristoro al patrimonio dell’impresa, il risarcimento del danno va esclusivamente in favore della massa, appunto come a vantaggio di quest’ultima va quanto recuperato in forza della unitaria azione ex art. 146 I. fall.

In tal modo, pare possa trovare idonea collocazione la distinzione tra, da un lato, il danno individuale ai singoli creditori e, dall’altro, il danno anche collettivo al patrimonio d’impresa.

3.6.4. – La distinta fattispecie del danno individuale al singolo creditore. Proprio per tale ragione, quando il curatore agisce per il danno patito dalla massa si tratta di una fattispecie di danno diversa, in virtù dei differenti elementi costitutivi, da quella per cui le Sezioni unite del 2006 esclusero la legittimazione attiva del curatore fallimentare.

Si è ritenuto, dalle citate Sezioni unite, il difetto di legittimazione attiva del curatore fallimentare a proporre, nei confronti della banca finanziatrice, l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai singoli creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta.

Qui, al contrario, come esposto, il danno fatto valere è quello alla massa creditoria, quale posizione indistinta e riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, essendo indubbio che il peggioramento delle condizioni patrimoniali societarie arreca un danno a tutti i creditori, che vedono pregiudicata la garanzia patrimoniale generica e ridotta matematicamente le chance di soddisfare il loro credito; l’azione della curatela è, così, finalizzata alla ricostituzione del patrimonio del soggetto assoggettato a fallimento, a vantaggio di tutti i creditori in concorso.

Dunque, con l’abusiva concessione del credito si può cagionare non soltanto il danno alla “libertà contrattuale” o di autotutela di chi abbia concesso la sua fiducia all’imprenditore (sempre che non si sia incolpevolmente avveduto delle reali condizioni dello stesso), ma anche la lesione – che dal primo è distinta – all’integrità della garanzia patrimoniale per tutti i creditori, anteriori o posteriori all’operazione bancaria, ammessi al passivo o a ciò aventi diritto.

Si tratta di una distinzione di fattispecie che, se si vuole, trova fondamento positivo, se solo si esamina già l’art. 240, comma 2, I. fall., laddove attribuisce ai singoli creditori la facoltà di costituzione in proprio di parte civile nei processi penali di bancarotta, solo quando «intendono far valere un titolo di azione propria personale», in caso contrario essendo legittimati «il curatore, il commissario giudiziale, il commissario liquidatore e il commissario speciale di cui all’art. 37 del decreto di recepimento della dir. 2014/59/UE».

3.6.5. – Il titolo di responsabilità verso l’impresa. La responsabilità verso il fallito è a titolo precontrattuale ex art. 1337 c.c., in quanto la banca avrà contrattato senza il rispetto delle prescrizioni speciali e generali che ne presidiano l’agire, dolosamente o colpevolmente disattendendo gli obblighi di prudente ed accorto operatore professionale ed acconsentendo alla concessione di credito in favore di un soggetto destinato, in caso contrario, ad uscire dal mercato; mentre si tratterà, più propriamente, di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., ove sia imputata alla banca la prosecuzione di un finanziamento in corso. In entrambi i casi, vuoi che la condotta abusiva pregiudizievole si esprima nella violazione di obblighi specifici, vuoi che si realizzi nella violazione del generale obbligo di buona fede di cui all’art. 1375 c.c., si tratta di responsabilità da inadempimento di un’obbligazione preesistente.

Si discorra, quindi, di responsabilità contrattuale, in quanto sorta a fronte di obblighi intercorrenti tra soggetti determinati, e non extracontrattuale, quale forma non ricollegata alla mediazione di obblighi.

Nel caso di concessione di credito, è invero convincente l’inquadramento della stessa, se si vuole operare secondo categorie classificatorie, nell’ambito della responsabilità di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., da cui derivano, a carico delle parti, reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr., per tale ricostruzione, Cass. 12 luglio 2016, n. 14188; seguìta da Cass. 25 luglio 2018, n. 19775; e v., in sede di regolamento di giurisdizione, Cass., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236).

Come hanno chiarito le Sezioni unite, opera la distinzione tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto ed obblighi che si riferiscono alla successiva fase esecutiva: la violazione dei primi destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale con il conseguente risarcimento del danno, senza che ciò sia impedito dall’avvenuta stipulazione del contratto, assumendo l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto ex art. 1337 e 1338 c.c. rilievo «non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto»; la violazione degli obblighi che si pongono, invece, nella fase successiva alla stipulazione del contratto assumendo i caratteri dell’inadempimento o inesatto adempimento contrattuale, trattandosi di doveri di fonte legale, ma derivanti da norme inderogabili e destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti (Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e n. 26725).

Tali ragionamenti si attagliano bene anche alla fattispecie in esame.

Al riguardo, si è bene rilevato (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5, in tema di responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nella fase precedente all’aggiudicazione) come la ratio storica degli artt. 1337 e 1338 c.c. – espressione della tensione di tutti i fattori verso la realizzazione della massima produzione nazionale (così la relazione illustrativa), donde per un «affiato economicistico e produttivistico» si apprestavano «strumenti risarcitori di fronte all’inutilizzazione (mancata conclusione del contratto) od allo sperpero (contratto invalido) di valori patrimoniali», atteso il disvalore ricollegato alle condotte impedienti la nascita di quei valori meritevoli di tutela che il contratto (sfumato o invalidamente concluso) avrebbe perseguito – sia man mano trascolorata verso una valenza generale del dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede, ogni volta, in particolare, che tra i consociati si instaurano momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati, secondo la teoria del c.d. contatto sociale qualificato. E dove l’elemento ricorrente, che contribuisce a qualificare il contatto sociale come fonte di doveri puntuali di correttezza, è rappresentato dal particolare status professionale rivestito.

In conclusione, posto che l’art. 1337 c.c. ha valore di clausola generale, onde le applicazioni di tale principio richiamate nella disposizione e nell’art. 1338 non sono esaustive, a tale norma può essere ricondotta anche la stipulazione di un contratto di finanziamento c.d. abusivo che si inserisca nella serie causale eziologicamente ricollegata al danno subìto dall’altro contraente.

Ne deriva che se un’obbligazione, sorta dal fatto giuridico del contatto o dal contratto di finanziamento, preesiste all’inadempimento, si applica la disciplina dell’art. 1218 c.c., quanto all’onere della prova per il creditore danneggiato ed al termine di prescrizione.

3.6.6. – Il titolo di responsabilità verso il ceto creditorio. In capo alla banca abusiva finanziatrice si pone, verso il ceto creditorio, una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. (se del caso in concorso con quella degli organi sociali).

Sia nell’azione ex artt. 2394-bis c.c. e 146 I. fall. contro gli amministratori, sia nell’azione ex artt. 2043 c.c. contro la banca finanziatrice, il curatore non fa valere, come rilevato, un danno subìto nella propria sfera individuale dal creditore, quale conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato, ma i danni che abbiano colpito il ceto creditorio, non allegando egli, invero, l’obiettivo di sottrarre la garanzia patrimoniale con riguardo unicamente all’obbligazione verso un singolo creditore (nel senso esplicitato da Cass. 10 aprile 2014, n. 8458).

Da tempo è consolidata la tesi dell’ammissibilità non solo del concorso fra responsabili a vario titolo, ma anche del possibile concorso in capo allo stesso soggetto di varie tipologie di responsabilità, come quando sia attribuita al medesimo una condotta colposa sia sul piano extracontrattuale, che sul piano contrattuale, «pacifica essendo, nel nostro ordinamento, la possibilità di concorso fra responsabilità aquiliana e contrattuale, allorché un unico comportamento, risalente al medesimo autore, appaia lesivo, oltreché di regole di condotte poste a tutela di interessi variamente protetti, anche di clausole contrattuali» (Cass. 13 gennaio 1993, n. 343, cit.).

3.6.7. – La possibile coesistenza della qualità di debitore e creditore in capo al finanziatore. Né il cumulo, in capo alla banca, della qualità di debitrice per l’azione sinora esaminata, e di creditrice per la restituzione delle somme finanziate, interessi ed altri importi, è impedito da qualche norma o principio di legge, potendo anzi operare al riguardo, se ne ricorrano gli estremi, l’istituto della compensazione tra i rispettivi crediti, ai sensi degli artt. 1241 ss. c.c. e 56 I. fall.

Non ha dunque pregio il distinto argomento contrario, sollevato dai controricorrenti, secondo cui l’azione della procedura sarebbe rivolta contro la banca, soggetto che, nel contempo, nella sua veste di creditore per la restituzione delle somme finanziate e non restituite, si avvantaggerebbe della reintegrazione del patrimonio sociale, all’esito dell’azione esperita contro i finanziatori “abusivi”: ed invero, nulla impedisce l’operatività, in tal caso, dell’istituto della compensazione dei reciproci crediti, che non necessariamente saranno della medesima entità.

3.6.8. – L’onere della prova Sotto il profilo dell’onere della prova, ai fini della configurabilità della responsabilità del soggetto finanziatore per le condotte più volte enunciate, il curatore ha l’onere di dedurre e provare: a) la condotta violativa delle regole che disciplinano l’attività bancaria, caratterizzata da dolo o almeno da colpa, intesa come imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p.; b) il danno- evento, dato dalla prosecuzione dell’attività d’impresa in perdita; c) il danno-conseguenza, rappresentato dall’aumento del dissesto; d) il rapporto di causalità fra tali danni e la condotta tenuta.

In particolare, l’affermazione di tale responsabilità della banca richiede non solo la rigorosa indagine circa la situazione di negligenza professionale della banca, ma anche la scrupolosa verifica del nesso causale, ai sensi dell’art. 1223 c.c., alla stregua della teoria della causalità adeguata, per la quale non è sufficiente che tra l’antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza temporale, essendo invece necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, di tal che l’evento dannoso si ponga come conseguenza normale dell’antecedente (e multis, Cass. 21 maggio 2019, n. 13598, Cass. 12 dicembre 2017, n. 29787 e Cass. 6 ottobre 2017, n. 23410, non massimate; Cass. 24 maggio 2017, n. 13096; Cass. 22 ottobre 2013 n. 23915; Cass. 14 aprile 2010 n. 8885; Cass.7 luglio 2009, n. 15895; Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576; Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619; Cass. 31 maggio 2005, n. 11609; Cass. 18 aprile 2005, n. 7997), il quale abbia rappresentato, secondo la logica del “più probabile che non”, la ragione della prosecuzione dell’attività d’impresa e, quindi, del pregiudizio economico di cui si chiede il risarcimento.

La necessità di definire ed accertare con rigore tali elementi costitutivi deriva dal doveroso rispetto del punto di equilibrio tra opposti valori meritevoli di tutela, quali, da un lato, la posizione giuridica del finanziato e dei suoi creditori, e, dall’altro lato, la libertà contrattuale del banchiere. ‘

3.6.9. – Il concorso con gli organi sociali ex art. 146 I. fall. La responsabilità della banca abusiva finanziatrice, inoltre, può porsi in concorso con quella degli organi sociali ex art. 146 I. fall.

Ciò vuol dire che, se il curatore esercita l’azione verso gli amministratori per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, in quanto il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti, il fondamento è la diminuzione arrecata dagli organi sociali a quel patrimonio, che appunto perciò non è in grado di adempiere alle obbligazioni sociali.

Per tale ragione, ove poi tale diminuzione sia dipesa dal fatto concorrente di un terzo – qual è la banca che abbia continuato ad offrire credito senza il rispetto delle regole prudenziali del finanziamento alla clientela – il curatore può invocarne la responsabilità solidale con gli amministratori, ai sensi dell’art. 2055 c.c., quale fatto causatore del medesimo danno.

Non occorre, peraltro, che siano contestualmente intraprese le due azioni, verso gli organi sociali e verso le banche terze.

Pur quando, infatti, sia allegata la loro responsabilità concorrente, per avere con le rispettive condotte cagionato il medesimo danno, ai sensi dell’art. 2055 c.c., le obbligazioni restano solidali ed i responsabili meri litisconsorti facoltativi (e multis, su quest’ultimo profilo, Cass. 20 agosto 2019, n. 21514; Cass. 29 maggio 2013, n.13458; Cass. 10 novembre 2008, n. 26888; nel senso del litisconsorzio facoltativo, già Cass. 1° giugno 2010, n. 13413, in motiv.). Ciò secondo la regola generale, per cui la sentenza non è inutiliter data, ove il giudicato sopravvenga solo tra il creditore ed uno o più dei vari condebitori responsabili.

Né il curatore, pertanto, è onerato di allegare in giudizio, a pena di inammissibilità, l’astratta sussistenza di un fatto di reato ex art. 240 I. fall. commesso dagli amministratori, o di chiederne al tribunale l’accertamento in via incidentale.

Onde il curatore ben potrebbe agire nei confronti dell’una o dell’altra categoria – gli esponenti aziendali o le banche – come pure di singoli soggetti ad esse appartenenti, senza che nessuna eccezione processuale o sostanziale possa essere, sotto tale profilo, sollevata dai soggetti responsabili.

3.6.10. – Il concorso del fatto del creditore ex art. 1227 c.c. L’art.1227 c.c., che potrebbe essere invocato per i danni diretti alla società, non lo è quando il curatore agisca per la massa.

Nel primo caso ove, con la condotta dell’incauto finanziatore, alla produzione del danno concorra quella della società finanziata, potrà ritenersi integrata la fattispecie dell’art. 1227, comma 1, c.c., sul concorso colposo del creditore nella causazione dell’evento.

Può accadere, invero, che sia individuata una condotta della stessa società finanziata, come attuata dal suo rappresentante legale, che abbia concorso, in via causale, all’aggravamento del dissesto, sia mediante la reiterata richiesta di ordinario credito in luogo del ricorso a soluzioni alternative di risoluzione della crisi, sia attraverso la prosecuzione infruttuosa, ed, anzi, pregiudizievole dell’attività sociale nonostante il sopraggiunto stato di scioglimento.

In tal caso, le due condotte, del finanziato e del finanziatore, eziologicamente concorrenti nella produzione del medesimo danno, saranno valutate alla stregua del primo comma dell’art. 1227 c.c., con conseguente possibilità di proporzionale riduzione del risarcimento posto a carico della banca. Trattandosi di azione che il curatore trova nel patrimonio della società e che è legittimato ad esercitare in luogo dello stesso imprenditore, invero, è possibile opporvi l’eccezione (in senso lato) ex art. 1227, comma 1, c.c. di concorso del fatto dello stesso creditore nella causazione del danno, il cui apporto sarà da valutare caso per caso.

Non così, però, se si ponga mente all’azione di responsabilità esperita dal curatore per conto della massa creditoria, a reintegrazione del patrimonio da assoggettare a procedura concorsuale pregiudicato dall’abusiva concessione del credito.

In tal caso, allora, tenuto conto della posizione del curatore nell’esercitare un’azione a tutela dell’intero ceto creditorio, non rileva se la società abbia, a mezzo dei suoi amministratori, contribuito nell’illecito con l’abusivo ricorso al credito: l’art. 1227 c.c. non potrà essere efficacemente invocato dalla banca, al fine di ridurre la sua responsabilità per fatto dello stesso creditore, perché allora questo sarà dato dall’intero ceto creditorio, formato da una massa indefinita, alla quale ciascun creditore ha titolo di partecipare nelle forme del concorso ed in ragione della posizione di terzietà dei creditori rispetto al soggetto finanziato.

4. – La sentenza impugnata. Nella specie, dal contenuto dell’atto di citazione introduttivo – che, nel rispetto del principio ex art. 366 c.p.c., il ricorso riporta – risulta che la domanda è volta al risarcimento del danno cagionato al patrimonio sociale dalla condotta delle banche per l’erogazione dei finanziamenti, nonostante una condizione economica tale da non giustificarli.

L’azione proposta dal fallimento si rivolge, dunque, contro i finanziatori, censurando la condotta dei medesimi, che ha avuto l’effetto di danneggiare il patrimonio d’impresa e, perciò, il ceto creditorio nel suo complesso.

Non rileva se, ancora nella memoria, il fallimento ricorrente insista soprattutto nella configurazione di un danno al patrimonio della società in concorso con gli amministratori, per dimostrare di avere sin dall’inizio allegato detto concorso: a tale configurazione, infatti, dell’iniziativa giudiziale è stato indotto dai precedenti di questa Corte, anteriori al ricorso; ma ciò non toglie che, dalla prospettazione della domanda, come riportata in maniera specifica, risulti fatto valere il pregiudizio al patrimonio della società, quale “bene” su cui deve esplicarsi il concorso creditorio in sede fallimentare, con sostanziale vanto proprio del diritto e della legittimazione qui riconosciuti.

Erra, dunque, la corte del merito nel negare la legittimazione attiva della curatela, reputando indispensabile elemento costitutivo della stessa l’esercizio contestuale di un’azione di responsabilità ex art. 146 I. fall. nei confronti degli amministratori della società fallita (oltretutto, neppure considerando che, in punto di fatto, detta azione era stata comunque esperita in sede penale, mediante la costituzione di parte civile nel processo che vedeva imputati gli amministratori per reati fallimentari).

5. – Conclusioni e principi di diritto. La sentenza impugnata, in conclusione, va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di [Omissis], in diversa composizione, perché proceda alla trattazione della causa, tenuto conto dei seguenti principi di diritto:

«L’erogazione del credito che sia qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività d’impresa».

«Non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi».

«Il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.».

«La responsabilità in capo alla banca, qualora abusiva finanziatrice, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 I. fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fatti causatori del medesimo danno, senza che, peraltro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di mero litisconsorzio facoltativo».

Alla Corte del merito si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di [Omissis], in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.

Documenti & materiali

Scarica Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 30/06/2021, n. 18610

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