Danni da fauna selvatica: la Cassazione torna a pronunciarsi e fa chiarezza In nota a Cass. Civ., Sez. III, 06/07/2020, n. 13848

By | 14/07/2020

Con l’ordinanza Cass. Civ., Sez. III, 06/07/2020, n. 13848 che qui si segnala, la Suprema Corte torna a parlare di responsabilità per i danni cagionati da fauna selvatica (nella specie due cervi che attraversando la strada avevano arrecato danni ad un’autovettura), affermando che in tema di responsabilità extracontrattuale, il danno cagionato dalla fauna selvatica in circolazione è risarcibile non ex art. 2043 c.c., ma ai sensi dell’art. 2052 c.c., poiché tale ultima disposizione non contiene alcun espresso riferimento ai soli animali domestici, ma riguarda, in generale, quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell’uomo, prescindendo dall’esistenza di una situazione di effettiva custodia degli stessi.

Nella specie, la Regione Abruzzo, condannata al risarcimento dei danni, impugnava rilevando, preliminarmente, che la propria responsabilità era stata riconosciuta, dalla sentenza impugnata, per effetto della mancata attivazione di barriere di protezione o di altri strumenti volti ad evitare danni del tipo di quello verificatosi nell’area interessata dal sinistro, in particolare, la responsabilità di essa Regione era stata affermata sul presupposto che, in materia di controllo della fauna selvatica, i compiti, pure attribuiti alle Province, erano considerati espressamente “funzioni amministrative regionali ad esse delegate”.

La Corte Suprema dà atto, in effetti, dell’esistenza, sulla questione, di orientamenti non sempre univoci, quanto al problema se tale soggetto, su un piano generale, debba individuarsi nelle singole Regioni, ovvero nelle loro Provincie o in altri enti che risultino, in concreto, coinvolti in ciascuna vicenda (ovvero quelli – e ciò, soprattutto, in relazione a danni verificatisi in occasione di incidenti stradali – proprietari della strada “teatro” del sinistro).

E proprio in considerazione di questa incertezza la Corte ritiene

necessario un ripensamento dell’intera tematica, anche al fine di assicurare – pure in tale materia – l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, e con esse l’unità del diritto oggettivo nazionale (come il R.D. 30 gennaio 1942, n. 12, art. 65, ovvero la legge sull’ordinamento giudiziario, richiede a questa Corte).

Per cui, dopo aver ripercorso e ricostruito il quadro legislativo, ed i vari orientamenti formatisi, la Corte, considera che la proprietà e l’utilizzazione dell’animale

(quale relazione, come detto, dalla quale si trae una “utilitas” anche non patrimoniale), ha la funzione di individuare un criterio oggettivo di allocazione della responsabilità in forza del quale, dei danni causati dall’animale stesso, deve rispondere il soggetto che dallo stesso trae un beneficio, in sostanziale applicazione del principio “ubi commoda ibi et incommoda”, con l’unica salvezza del caso fortuito.

Che poi, in un simile caso, sussista un diritto di proprietà statale in relazione ad alcune specie di animali selvatici (precisamente, quelle oggetto della tutela di cui alla citata L. n. 157 del 1992), è conseguenza che deriva tanto dalla loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, quanto, soprattutto, dall’essere tale regime di proprietà pubblica espressamente disposto in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema.

E poichè tale funzione si realizza mediante l’attribuzione alle Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonchè di indirizzo, coordinamento e controllo (non escluso il potere sostitutivo) sugli altri enti, titolari di più circoscritte funzioni amministrative nello stesso ambito, la conseguenza secondo la Corte è che è in capo alle Regioni che va imputata la responsabilità, ai sensi dell’art. 2052 c.c..

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