C.N.F.,16/12/2019, N. 171
«L’art. 24 c.d.f. (già art. 37 codice previgente) mira ad evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato e, quindi, perché si verifichi l’illecito, è sufficiente che potenzialmente l’opera del professionista possa essere condizionata da rapporti di interesse con la controparte. Peraltro, facendo riferimento alle categorie del diritto penale, l’illecito contestato all’avvocato è un illecito di pericolo, quindi l’asserita mancanza di danno è irrilevante perché il danno effettivo non è elemento costitutivo dell’illecito contestato»
FATTO
L’Avv. [Omissis] veniva coinvolto il [Omissis] in un incidente stradale dal sig. [Omissis], che lo seguiva con un altro veicolo, che se ne assumeva la responsabilità sottoscrivendo il modello di constatazione amichevole di incidente; risarcito solo parzialmente dall’assicurazione, agiva in giudizio nei confronti della compagnia assicurativa [Omissis] Assicurazioni, assistito dall’Avv. [Omissis], collaboratrice esterna del suo studio (della quale si serviva per sostituzioni di udienza, attività di cancelleria, redazione di alcuni atti giudiziari standard e procedimenti civili in cui l’incolpato era in mandato congiunto con l’Avv. [Omissis] del Foro di [Omissis]) chiamando in causa il [Omissis] quale litisconsorte necessario. La compagnia rilevava che nella comparsa di risposta dell’ [Omissis] il sig. [Omissis] risultava difeso dall’Avv. [Omissis] e che quest’ultima aveva eletto domicilio in [Omissis], presso lo studio (o abitazione, non sembra chiaro dalla ricostruzione dei fatti) dell’attore, Avv. [Omissis], e segnalava la circostanza al COA di [Omissis], presentando un esposto nei confronti della professionista. É da precisare che con detta comparsa di risposta il difensore del [Omissis] riconosceva la piena responsabilità del proprio cliente e chiedeva che venisse “acclarata la fondatezza della domanda svolta da parte attrice”. Il COA di [Omissis] notiziava la professionista, la quale sporgeva denuncia-querela presso la procura di [Omissis] nei confronti dell’Avv. [Omissis], per i reati di cui agli artt. 481 e 485 c.p. (falsità in scrittura privata e falsità ideologica), negando di essere l’autrice della comparsa di risposta, non essendo a conoscenza dell’esistenza della causa, e disconoscendo le firme riconducibili a suo nome, anche quella della procura alle liti. Il COA di [Omissis] archiviava il procedimento disciplinare nel [Omissis], considerando i fatti privi di rilevanza disciplinare e il Giudice di Pace di [Omissis], con sentenza N° [Omissis] del [Omissis], accertava la responsabilità del sig. [Omissis] per il sinistro occorso.
Veniva avviato un procedimento penale nei confronti dell’Avv. [Omissis] (RGNR [Omissis]/ [Omissis]) dalla Procura della Repubblica di [Omissis], nell’ambito del quale venivano sentite le persone informate dei fatti:
L’Avv. [Omissis] riferiva: di non avere contezza del procedimento, per il quale era stata utilizzata una vecchia cartellina; che l’Avv. [Omissis] aveva svolto la pratica forense in passato nel suo studio, negli anni [Omissis] – [Omissis], e che collaborava con lui occasionalmente; di conoscere il sig. [Omissis] perché aveva assistito la sua compagna.
Il Sig. [Omissis] riferiva dell’amicizia con l’indagato ma non ricordava chi lo aveva assistito nella causa civile.
L’Avv. [Omissis] riferiva di collaborare con l’Avv. [Omissis] e di non aver mai parlato con l’Avv. [Omissis] specificamente in relazione al procedimento in questione, ma di aver predisposto bozza di comparsa di costituzione e risposta, poi inviata all’Avv. [Omissis] che assisteva direttamente.
L’indagato riferiva di aver depositato personalmente la comparsa, predisposta e sottoscritta dall’Avv. [Omissis]. Precisava poi, con memoria difensiva ex art. 415-bis c.p.p. del [Omissis], di non essere l’autore delle sottoscrizioni, che l’Avv. [Omissis] conosceva perfettamente il sig. [Omissis] in quanto lo aveva assistito con successo in un procedimento penale ed aveva piena contezza del procedimento civile in questione pendente davanti al Giudice di Pace di [Omissis].
Nei confronti dell’Avv. [Omissis] veniva esercitata l’azione penale per tre capi di imputazione:
1) formazione di un mandato falso in favore dell’Avv. [Omissis], con firma falsificata;
2) falsificazione della firma nella comparsa di risposta;
3) falsificazione della delega a sostituto processuale in favore di altro collega per l’udienza del [Omissis] di escussione dei testi.
Nel corso dell’udienza preliminare, il [Omissis], l’imputato precisava come spesso si scambiava gli atti con l’Avv. [Omissis] senza firmarli, ma venivano poi siglati da ciascuno di loro, con le iniziali dell’altro, non avendo il tempo di farli firmare. Nel corso del giudizio l’Avv. [Omissis] rimetteva la querela e con sentenza dell'[Omissis] l’Avv. [Omissis] veniva assolto dal capo 1 perché il fatto non sussiste e dai capi 2 e 3 perché non più previsti dalla legge come reato.
Nel contempo, il COA di [Omissis], avuta notizia del procedimento penale pendente nei confronti del professionista, lo sospendeva in via cautelare in data [Omissis];
l’Avv. [Omissis] proponeva ricorso al CNF avverso il provvedimento, che veniva annullato con sentenza [Omissis] per mancanza del requisito dello strepitus fori; la decisione, impugnata dal COA di [Omissis], veniva confermata dalla Cassazione con sentenza [Omissis]. L’Avv. [Omissis] pativa, nelle more, sette mesi e tredici giorni di sospensione.
Nel frattempo, con comunicazione del [Omissis], il COA di [Omissis] apriva procedimento disciplinare nei suoi confronti e trasmetteva il fascicolo al CDD nel [Omissis], che inviava la comunicazione di avvio della fase istruttoria preliminare il [Omissis] e lo convocava per il [Omissis] per rendere chiarimenti.
L’incolpato depositava deduzioni il [Omissis], chiedendo l’archiviazione del procedimento preliminare e, in subordine, la sospensione in attesa della definizione del procedimento penale, l’acquisizione delle deposizioni testimoniali rese nell’ambito del giudizio penale, e precisava che la perizia del CTU nel procedimento penale aveva escluso che le sottoscrizioni disconosciute fossero a lui riconducibili.
L’Avv. [Omissis], nella seduta del [Omissis], confermava la sua versione dei fatti.
L’Avv. [Omissis], con memoria del [Omissis], ribadiva il contenuto delle proprie difese ed evidenziava la strumentalità dell’iniziativa della collega [Omissis], che l’aveva denunciato solo perché era stato presentato esposto nei confronti della stessa, commettendo peraltro calunnia e dicendo il falso in ordine: alla mancata conoscenza del cliente [Omissis], alla mancata conoscenza dell’indirizzo ove era domiciliata (lo studio del [Omissis]) e del procedimento civile per il risarcimento del danno da circolazione stradale. Precisava che non vi era necessità di coinvolgere l’Avv. [Omissis] nel giudizio civile, perché il convenuto [Omissis] poteva anche non costituirsi nel procedimento, ma aveva intenzione di farlo e conosceva quali legali – oltre all’odierno ricorrente – solo l’Avv. [Omissis], difensore del [Omissis] e sua collaboratrice (anche se il ricorrente ritiene solo occasionale) e l’Avv. [Omissis], che l’aveva difeso in un precedente giudizio.
Con deliberazione del [Omissis] la sezione del CDD disponeva la citazione a giudizio dell’incolpato per il [Omissis] per i seguenti capi di incolpazione:
A) Violazione art. 88 c.p.c. e doveri di lealtà e correttezza, dignità e decoro di cui all’art. 9, co. 1 e art. 24 CDF (conflitto di interessi), per aver provveduto a gestire tramite l’attività del proprio studio professionale sia la propria posizione personale di attore, sia quella del sig. [Omissis], pur essendo parti contrapposte dello stesso sinistro, avvenuto il [Omissis], avendo assunto così – di fatto – la difesa anche della controparte, solo formalmente assistita dall’Avv. [Omissis], nella causa pendente davanti al Giudice di Pace di [Omissis];
B) Violazione artt. 7 e 19 CDF per aver utilizzato il nome dell’Avv. [Omissis], che solo formalmente appariva essere il difensore del convenuto, mentre i relativi atti erano predisposti dalla sua collaboratrice Avv. [Omissis];
C) Violazione art. 63 CDF, per aver fatto costituire in giudizio il sig. [Omissis] per aggravare gli oneri processuali a carico dell’assicurazione del medesimo.
Nel corso della seduta il CDD sentiva:
– l’Avv. [Omissis], che confermava il contenuto dell’esposto e negava di aver apposto firme sul mandato, sull’atto e sulla delega per sostituzione in udienza; non ricordava precisamente della causa, ma comunque non ne aveva saputo nulla;
– l’Avv. [Omissis], che riferiva di collaborare per alcune cause, in maniera continuativa, con l’incolpato, pur lavorando presso lo studio di altro professionista; di aver predisposto le bozze degli atti dell’Avv. [Omissis], che aveva poi trasmesso al [Omissis], in quanto non ne aveva mai parlato specificamente con l’Avv. [Omissis], se non in passato in un’occasione, insieme all’incolpato, prima di citare la compagnia assicurativa in giudizio; negava di aver depositato l’atto né sapeva chi aveva provveduto a firmarlo;
– il sig. [Omissis], che riferiva dei rapporti di amicizia con il [Omissis], diceva – contrariamente a quanto dichiarato ai carabinieri nel [Omissis] – che aveva contattato l’Avv. [Omissis] e di averla incontrata insieme all’Avv. [Omissis], e di aver consegnato la procura a persona mandata dalla [Omissis] che non conosceva, recatasi presso la sua agenzia.
Nella seduta del 10/02/17 il CDD sentiva l’Avv. [Omissis]. Ritenuto necessario acquisire copia della sentenza penale N° [Omissis]/ [Omissis] del Tribunale di [Omissis], con attestato di irrevocabilità del giudizio, il procedimento veniva rinviato al [Omissis]. Emergeva che: per il capo 1) la sentenza di assoluzione era stata impugnata dal PM il [Omissis], mentre per i capi 2) e 3) il proscioglimento era stato disposto perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato, a seguito di depenalizzazione.
All’esito dell’istruttoria, il CDD riteneva di prosciogliere l’incolpato dal capo C), non essendovi alcuna prova. Lo riteneva responsabile delle violazioni di cui ai capi A) e B).
Da un lato, riteneva accertato che le firme apposte negli atti giudiziari della causa non appartenevano all’Avv. [Omissis] (che aveva presentato denuncia-querela, e lo aveva ribadito anche in sede disciplinare); riteneva, altresì, che si trattava di dichiarazioni pienamente attendibili e precise nella descrizione dei fatti e costanti nel tempo, che trovavano conforto in numerosi riscontri oggettivi rinvenibili negli atti (timbri e recapiti utilizzati facevano tutti riferimento all’Avv. [Omissis]) nonché dalle risultanze della perizia svolta in sede penale.
Dall’altro, evidenziava che l’Avv. [Omissis] tramite il proprio studio aveva gestito sia la propria posizione di attore che quella di convenuto, parti contrapposte dello stesso sinistro, in base a numerose circostanze e dichiarazioni (cf. pagg. 12-13 della decisione); in particolare, richiamava le dichiarazioni del sig. [Omissis] e dell’Avv. [Omissis], mutate nel tempo e perciò contrastanti tra loro, quelle dell’Avv. [Omissis], che aveva riferito di aver predisposto bozza della comparsa di risposta.
Il CDD riteneva sussistente un conflitto di interessi anche se apparente, poiché l’Avv. [Omissis] aveva – di fatto – assunto la difesa di due soggetti portatori di interessi confliggenti.
Richiamava sul punto l’evoluzione della giurisprudenza, che ha riconosciuto la rilevanza deontologica del conflitto potenziale proprio per assicurare al cliente un’adeguata difesa.
Respingeva al tempo stesso l’eccezione di prescrizione formulata dall’incolpato, non ritenendo che il dies a quo potesse decorrere dal deposito della comparsa di risposta ([Omissis]), ma dalla sentenza del Giudice di Pace; in ogni caso, anche a prescindere dalla pendenza del procedimento penale, rilevava che erano intervenuti numerosi atti interruttivi con effetti istantanei, sia con l’apertura del procedimento, sia di natura propulsiva e probatoria (basti pensare alla sospensione cautelare del [Omissis] adottata successivamente all’audizione dell’incolpato del [Omissis]).
Per quanto concerne gli effetti del giudicato penale nel procedimento disciplinare, invocati dal ricorrente, il CDD rilevava che il capo 1) della sentenza risulta impugnato dal PM, per cui non può produrre alcun effetto di giudicato; per i capi 2) e 3) il proscioglimento è stato dichiarato per intervenuta depenalizzazione, per cui il fatto storico, nella sua materialità, doveva ritenersi sussistente.
Valutata la gravità del comportamento, la natura degli atti oggetto di contestazione, nonché il comportamento successivo dell’incolpato (mancata resipiscenza, tentativo di addossare la responsabilità della vicenda sull’Avv. [Omissis], accusata di calunnia e di falso), il CDD lo sanzionava con la sospensione dall’esercizio della professione per anni uno.
Avverso la decisione del CDD depositata il [Omissis] e notificata a mezzo pec lo stesso giorno, l’odierno ricorrente proponeva impugnazione con ricorso regolarmente depositato l'[Omissis].
L’Avv. [Omissis], con i motivi di ricorso, ha eccepito: una violazione di legge, eccesso di potere e contraddittorietà della motivazione in ordine:
1. alla sussistenza dei fatti contestati (travisamento dei fatti; difetto di prova);
2. all’utilizzabilità e valutazione delle prove acquisite nel corso del procedimento disciplinare, con relativa violazione del diritto di difesa;
3. al principio di presunzione di non colpevolezza;
4. alla dichiarata sussistenza del conflitto di interessi, in quanto solo potenziale;
5. alla prescrizione dell’azione disciplinare;
6. alla misura della sanzione irrogata.
Ha chiesto, quindi, di dichiarare illegittima e annullare, revocare o riformare la decisione del CDD per difetto di prova, travisamento dei fatti, violazione del diritto di difesa e del principio di presunzione di non colpevolezza e, in subordine, per insussistenza di responsabilità disciplinare e/o prescrizione dell’azione disciplinare. In via estremamente subordinata, ha chiesto l’applicazione della sanzione dell’avvertimento o della censura.
DIRITTO
1- Il ricorrente eccepisce la prescrizione degli illeciti contestati rilevando di essersi disinteressato del giudizio civile dopo l’avvio dell’azione, non avendo partecipato ad alcuna udienza o compiuto attività, per cui, a suo avviso, il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione corrisponderebbe alla data di deposito dell’atto di costituzione del sig. [Omissis], avvenuto in data [Omissis].
Censura, quindi, la decisione del C.D.D. che ha rigettato l’eccezione di prescrizione formulata già nel corso del procedimento disciplinare, rilevando che le circostanze contestate in sede disciplinare non hanno rilevanza penale, per cui il termine di prescrizione sarebbe decorso dal giorno della consumazione del fatto non potendosi considerare decorrente dalla definizione del processo penale; dall’altro lato, riferisce che il capo di incolpazione gli è stato notificato solo in data [Omissis], per cui non si potrebbe tenere conto degli atti interruttivi precedenti, i quali riguardavano una fattispecie del tutto diversa, sia dal punto di vista fattuale che temporale, che coincideva col capo di imputazione contestato in sede penale.
Sostiene, ancora, il ricorrente, che la contestazione disciplinare coincideva con quella penale solo nel procedimento conclusosi con la sospensione cautelare (successivamente dichiarata illegittima), mentre in seguito risultava del tutto diversa.
L’eccezione è infondata.
Come ha precisato lo stesso ricorrente, recentemente la Corte Suprema ha confermato che la nuova disciplina della prescrizione dettata dalla riforma professionale (art. 56, co. 3, L. N° 247/12, che prevede che l’azione disciplinare si prescrive in sei anni dal fatto e che stabilisce un termine massimo di prescrizione), non si applica agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore (Cass. SS.UU., N° 9558/18). Di conseguenza, occorre considerare la vecchia disciplina, in forza della quale il termine di prescrizione dell’azione disciplinare è di 5 anni (art. 51 R.D.L. N° 1578/33). Qualora il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale, la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale (Cass. SS. UU, N° 29878/18; C.N.F., N° 29/18), anche se il giudizio disciplinare non è stato sospeso; la circostanza, infatti, può incidere solamente sulla validità dei meri atti ma non sul termine iniziale della prescrizione (Cass. SS.UU., N° 26148/17).
É lo stesso ricorrente a rilevare che il C.O.A. di [Omissis] ha aperto il procedimento disciplinare nei suoi confronti il [Omissis], perciò sussiste, nel caso che ci occupa, un atto idoneo ad interrompere la prescrizione con effetti istantanei, ai sensi dell’art. 51 R.D.L. N° 1578/33 (Cass. SS.UU., N° 21591/13); successivamente il fascicolo è stato trasmesso al C.D.D. ed il procedimento disciplinare è proseguito, ma non iniziato ex novo, pur se la contestazione sembrerebbe mutata.
Anche volendo seguire, quindi, la prospettazione del ricorrente, la prescrizione, ad avviso del Collegio, non risulta maturata.
Al tempo stesso, si evidenzia che è consolidato il principio in base al quale il dies a quo per la prescrizione dell’azione disciplinare va individuato nel momento della commissione del fatto solo se questo integra una violazione deontologica di carattere istantaneo che si consuma o si esaurisce nel momento stesso in cui viene realizzata; ove, invece, la violazione risulti integrata da una condotta protrattasi e mantenuta nel tempo, la decorrenza del termine prescrizionale ha inizio dalla data di cessazione della condotta (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 19/12/2014, N° 191; Cass. Civ., Sez. Un. 26/11/2008, N° 28159; Cass. Civ., Sez. Un., 1/10/2003, N° 14620) che, nella fattispecie, è venuta meno solo con la cessazione della situazione “antigiuridica”.
2- Il ricorrente, ulteriormente, da un lato eccepisce che i fatti di cui al procedimento penale conclusosi risultano differenti rispetto a quelli contestati in sede disciplinare; dall’altro lamenta la violazione dell’art. 653 c.p.p., perché il C.D.D. avrebbe dovuto rispettare il giudicato penale di assoluzione con formula piena.
Anche queste eccezioni sono infondate.
La ratio della norma, così come quella della disciplina previgente di cui all’art. 295 c.p.c., applicabile ai procedimenti davanti ai C.O.A. (ma non ai C.D.D.) che imponeva la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di procedimento penale per i medesimi fatti -, era quella di evitare un contrasto di giudicati. La nuova disciplina di cui alla L. 247/12, applicabile ai procedimenti celebrati dai C.D.D., amplia l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, prevedendo una sospensione di carattere facoltativo, mantenendo comunque fermo il disposto di cui all’art. 653 c.p.p.-
La stessa giurisprudenza è costante nell’affermare che la sentenza penale di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità penale e della circostanza che l’imputato l’ha commesso; allo stesso tempo un giudicato penale di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso esclude la possibilità di una valutazione disciplinare.
Diversa è la circostanza qualora il fatto non costituisca reato: il giudicato, in tale evenienza, riconosce l’ontologia del fatto e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso, ma ne esclude l’illiceità penale (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 4/6/2009, N° 56: In tema di rapporti tra giudizio penale e giudizio disciplinare, la sentenza irrevocabile pronunciata nel primo ha efficacia di giudicato nel secondo quanto all’accertamento del fatto, alla sua eventuale illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Qualora, tuttavia, l’assoluzione sia stata pronunciata perché il fatto non sussiste, l’esclusione dell’ontologia del fatto ne impedisce la valutazione anche disciplinare, mentre se essa è intervenuta perché il fatto non costituisce reato, riconoscendone l’ontologia ed escludendo la sola rilevanza penale, l’organo disciplinare può e deve valutarlo sotto il profilo deontologico).
Nel caso di specie, secondo quanto correttamente precisato dal C.D.D., il ricorrente era stato sì assolto, ma sulla base di una depenalizzazione del comportamento contestatogli, per cui il fatto non costituiva (più) reato, al contrario delle mere asserzioni del ricorrente secondo cui lo stesso sarebbe stato assolto con formula piena.
3- Il ricorrente lamenta una violazione del diritto di difesa, poiché nel procedimento disciplinare il C.D.D. avrebbe considerato quali fonti di prova più rilevanti le deposizioni testimoniali acquisite in via documentale (come le assunzioni di sommarie informazioni delle persone coinvolte davanti agli organi di polizia giudiziaria), anziché dare maggiore rilievo alle deposizioni testimoniali acquisite direttamente in dibattimento. Assume che le informative sono spesso carenti del requisito della genuinità e ritiene che, ai sensi delle disposizioni di cui al c.p.p., tali fonti di prova non potevano essere utilizzate (artt. 500 e 514 c.p.p.). Assume che le dichiarazioni rese nel procedimento penale avevano uno scopo difensivo, ma non potevano certo assumere natura confessoria; l’avvocato-imputato, infatti, ha il diritto di difendersi, come tutti gli altri imputati.
Dette deduzioni sono infondate per le ragioni che qui di seguito vengono esplicitate. Occorre precisare che al procedimento disciplinare, per quanto non specificamente disciplinato, si applicano le norme del codice di procedura penale, in quanto compatibili (art. 59, co. 1, lett. n della L. 247/12). Si tratta, tuttavia, di giudizi di carattere diverso, con una finalità differente.
Il regolamento C.N.F. 2/14 disciplina le prove utilizzabili ai fini della decisione disciplinare, sulla scorta dei dettami dell’art. 59 L. 247/12, e all’art. 23, co. 1, lett. b) indica anche «b) gli atti formati e i documenti acquisiti nel corso della fase istruttoria e del dibattimento», tra i quali risultava la documentazione relativa al procedimento penale, che era stata acquisita agli atti peraltro su insistenza dello stesso incolpato, il quale mirava a dimostrare la propria estraneità ai fatti addebitati.
Di conseguenza, ad avviso del Collegio, non risulta violato il diritto di difesa dell’incolpato, né possono considerarsi applicabili le norme del c.p.p., considerato che sussiste una disciplina normativa specifica sul punto.
Pertanto, si evidenzia che il C.D.D. ha tenuto conto di tutto il materiale probatorio – e in particolare quello del procedimento penale – al fine di valutare l’attendibilità dei testimoni e verificare la concordanza delle loro dichiarazioni rispetto a quelle rese in precedenza.
4- Il ricorrente ritiene che la decisione del C.D.D. sia viziata sotto il profilo di una motivazione carente e/o contraddittoria, anche in ragione di un travisamento dei fatti e di una grave mancanza di prova riferita alle circostanze oggetto del capo di incolpazione. Tale carenza probatoria avrebbe comportato, altresì, la violazione del principio di presunzione di non colpevolezza: non essendoci certezza assoluta sui fatti, doveva – secondo gli assunti del ricorrente – essere prosciolto.
Fornisce, quindi, una diversa ricostruzione dei fatti, sottolineando di aver rivestito unicamente il ruolo di parte processuale, non di aver gestito l’intero processo con la partecipazione solo formale delle colleghe [Omissis] e [Omissis], essendosi successivamente disinteressato della causa. Riporta numerosi stralci delle deposizioni dei testi sentiti dal C.D.D. che confermerebbero la sua tesi. In particolare, censura la decisione nella parte in cui ha ritenuto attendibile l’Avv. [Omissis], che avrebbe mentito e non potrebbe essere considerata attendibile, poiché conosceva perfettamente il Sig. [Omissis], avendolo difeso in precedenza, conosceva l’indirizzo dove il medesimo ricorrente aveva il suo studio, perché vi si domiciliava spesso, e conosceva anche il procedimento civile in questione per risarcimento del danno, avendo difeso il Sig. [Omissis]; peraltro, risultando difensore di fiducia, riceveva le notifiche relative al procedimento tramite PEC grazie al sistema Polisweb.
Rammenta il Collegio che, secondo giurisprudenza costante, il C.N.F., quale giudice di legittimità e di merito, in sede di appello, può apportare alla decisione le integrazioni che ritiene necessarie, sopperendo così ad una motivazione inadeguata ed incompleta, anche riesaminando le circostanze che hanno condotto il C.D.D. a ritenere l’odierno ricorrente responsabile delle violazioni contestate (Cass. Sez. Un., sent. N° 15122/13; C.N.F., sent. N° 186/17).
Per quanto concerne il difetto di prova, giurisprudenza costante insegna che occorre un adeguato riscontro probatorio per suffragare le dichiarazioni dell’esponente, in modo che l’attività istruttoria sia correttamente motivata quando la valutazione disciplinare sia avvenuta non solo sulla base delle dichiarazioni dell’esponente, ma altresì dalle risultanze documentali acquisite agli atti (C.N.F., sent. N° 155/17).
Anche in sede disciplinare opera, peraltro, il principio del libero convincimento del giudice disciplinare, che ha ampio potere discrezionale nel valutare la conferenza e rilevanza delle prove acquisite, con la conseguenza che la decisione assunta in base alle testimonianze e agli atti acquisiti in conseguenza degli esposti deve ritenersi legittima quando risulti coerente con le risultanze documentali acquisite al procedimento (Cass. Sez. Un., sent. N° 961/17; C.N.F., sent. N° 57/17).
Il C.D.D. ha ritenuto l’Avv. [Omissis] responsabile degli addebiti contestati sulla scorta delle dichiarazioni dell’Avv. [Omissis], che ha considerato attendibili in quanto precise nella descrizione dei fatti e costanti nel tempo, in ragione di numerosi riscontri oggettivi rinvenibili negli atti. Aveva, infatti, la predetta, presentato denuncia-querela, poiché era stato utilizzato il suo nominativo come difensore in un procedimento rispetto al quale si dichiarava estranea, non avendo mai firmato la procura, la comparsa di costituzione e risposta, né la delega a sostituto in udienza; erano stati utilizzati timbri a lei non conosciuti e una cartellina del suo studio, con correzioni a penna (con i recapiti di indirizzo e fax dell’odierno ricorrente); la stessa perizia in sede penale aveva accertato che la firma non era autografa, e quindi non apposta dall’Avv. [Omissis]. Al tempo stesso, l’Avv. [Omissis], pur collaborando con altro studio e non essendo inserita stabilmente nella struttura dell’Avv. [Omissis], aveva sempre ammesso di aver collaborato con lui, più che occasionalmente in realtà, ma sistematicamente; era all’Avv. [Omissis] che mandava copie degli atti del procedimento in questione, e ammetteva di aver predisposto una bozza della comparsa di risposta.
La motivazione resa dal C.D.D. sul punto è, ad avviso del Collegio, esaustiva, logica e
pienamente condivisibile e, pertanto, gli assunti del ricorrente appaiono, anche sotto tali profili, infondati.
5- Il ricorrente esclude la sussistenza di responsabilità disciplinare, poiché asserisce che non aveva gestito l’intero processo, nel quale era parte costituita, assistita da una Collega, mentre altra Collega assisteva il suo amico [Omissis]. Al tempo stesso ritiene che debba farsi riferimento non alle norme del nuovo C.D.F. bensì a quelle (e alla giurisprudenza disciplinare) del vecchio C.D.F. Richiama, sul punto, la giurisprudenza più risalente che escludeva la rilevanza disciplinare della violazione dell’art. 37 vecchio C.D.F. (oggi art. 24 nuovo C.D.F.) sul conflitto di interessi qualora si trattasse di conflitto solo in via potenziale. Precisa, in ogni caso, che anche qualora i fatti addebitati fossero veri, la sua posizione e quella del Sig. [Omissis] non erano affatto antitetiche o incompatibili, poiché le difese del convenuto-responsabile civile erano adesive rispetto alle domande proposte dall’attore-danneggiato. Di conseguenza, non vi erano controparti sostanziali ma solo formali.
Ritiene il Collegio di non condividere la tesi del ricorrente secondo cui, al caso di specie, si applicano le norme del vecchio C.D.F. e non quelle del nuovo C.D.F.-
Sul punto, occorre precisare che, ai sensi dell’art. 65, co. 5, L. N° 247/2012, ai procedimenti disciplinari in corso si applicano le norme del nuovo codice deontologico forense qualora più favorevoli per l’incolpato (v. anche Cass. Sez. Un., N° 3023/2015).
Il C.D.D. ha ritenuto, nella fattispecie, sussistente un conflitto di interessi anche se apparente, poiché l’Avv. [Omissis] aveva – di fatto – assunto la difesa di due soggetti portatori di interessi confliggenti. Richiama, sul punto, l’evoluzione della giurisprudenza, che ha da tempo riconosciuto la rilevanza deontologica del conflitto potenziale proprio per assicurare al cliente un adeguata difesa, a prescindere peraltro dall’effettiva produzione di un eventuale danno.
La fattispecie che rileva è quella di cui all’art. 24 co. 5 nuovo C.D.F.- Occorre evidenziare che la nuova formulazione della norma ha aggiunto anche gli avvocati che «collaborino professionalmente in maniera non occasionale» oltre a quelli di una medesima società o associazione professionale, o che collaborano nei medesimi locali. Il ricorrente rileva che l’Avv. [Omissis] non esercitava nei medesimi locali, bensì risultava una collaboratrice occasionale (anche se davanti al C.D.D. questa ha dichiarato di collaborare stabilmente con l’incolpato).
Ritiene, inoltre, l’Avv. [Omissis], che si debba escludere l’applicabilità della nuova fattispecie.
Ritiene il Collegio di dover rammentare, in ogni caso, che nel vecchio sistema deontologico non vigeva alcun principio di tipicità dell’illecito disciplinare, spettando agli organi disciplinari individuare i comportamenti deontologicamente rilevanti; il nuovo sistema deontologico risulta di tipo misto, non tipico ma improntato solo tendenzialmente alla tipicità, e quindi governato dall’insieme delle norme, primarie (artt. 3 c.3 – 17 c. 1 e 51 c.1. della L. 247/2012) e secondarie (artt. 4 c. 2, 20 e 21 del C.D.F.), che dettano principi utili per circoscrivere il perimetro ordinamentale all’interno del quale deve essere ricostruito l’illecito disciplinare non tipizzato (C.N.F., sent. N° 137/15).
Ad avviso del Collegio, quindi, la rilevanza deontologica della condotta non corretta del ricorrente è pienamente sussistente.
Così come priva di censura ed esaustiva appare la motivazione del C.D.D., laddove ha ritenuto la esistenza di un conflitto di interesse, seppure apparente, da parte dell’Avv. [Omissis].
Sul punto il Collegio ritiene di dover confermare i propri precedenti approdi giurisprudenziali, che sostengono quanto segue: l’art. 37 C.D.F. (ora 24 N.C.D.F.) mira ad evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato e, quindi, perché si verifichi l’illecito, è sufficiente che potenzialmente l’opera del professionista possa essere condizionata da rapporti di interesse con la controparte. Peraltro, facendo riferimento alle categorie del diritto penale, l’illecito contestato all’avvocato è un illecito di pericolo, quindi l’asserita mancanza di danno è irrilevante perché il danno effettivo non è elemento costitutivo dell’illecito contestato (C.N.F., sent. del 12/9/2018, N° 101; conformi: C.N.F., N° 38/18; N° 186/17; N° 394/16; 265/16; 110/14; 222/13; 90/13; 142/10).
Anche sotto questo profilo, quindi, il ricorso è infondato e va rigettato.
6- A questo punto, accertata la sussistenza degli elementi idonei a sanzionare disciplinarmente la condotta del ricorrente, occorre determinarne la entità, considerando, a tal fine, che agli organi disciplinari è riservato il potere di applicare la sanzione adeguata alla gravità ed alla natura del comportamento deontologicamente non corretto (cfr. Cass. Sez. Un., sent. N° 13791/12).
La determinazione della sanzione disciplinare non è frutto di un mero calcolo matematico, ma è conseguenza della complessiva valutazione dei fatti (art. 21 N.C.D.F.), avuto riguardo alla gravità dei comportamenti contestati, al grado della colpa o all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato precedente e successivo al fatto, alle circostanze – soggettive e oggettive – nel cui contesto è avvenuta la violazione, all’assenza di precedenti disciplinari, al pregiudizio eventualmente subìto dalla parte assistita e dal cliente, nonché a particolari motivi di rilievo umano e familiare, come pure alla buona fede del professionista (C.N.F., sentenza del 22/11/2018, N° 145; conformi: C.N.F. N° 148/18; N° 145/18; N° 133/18; N° 112/18; N° 101/18).
Tenuto conto di quanto sopra nonché della possibilità consentita dall’art. 22 C.D.F. co. 3 di ridurre nei casi meno gravi la sanzione della sospensione alla censura, ritiene questo Consiglio di modificare la sanzione irrogata dal C.D.D. del [Omissis] di sospensione dall’attività per anni uno e di ridurla alla sanzione della censura.
P.Q.M.
Visti gli artt. 24 – 21 e 22 comma 3 N.C.D.F.;
Il Consiglio Nazionale Forense, in parziale riforma della decisione emessa dal C.D.D. del [Omissis] in data [Omissis] e depositata il [Omissis], nei confronti dell’Avv. [Omissis], nato a [Omissis] il [Omissis] ed in parziale accoglimento del ricorso, riduce la sanzione della sospensione dall’attività per anni uno alla sanzione della censura.
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