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La Suprema Corte è recentemente intervenuta (con l’ordinanza Cass. Civ., Sez. VI, 24/10/2017, n. 25163, che oggi vi proponiamo) su uno dei non pochi dubbi applicativi suscitati dall’art. 2467 C.C.1 e, segnatamente, sul tema della competenza a decidere sull’azione proposta dalla curatela fallimentare di una società per ottenere la restituzione, al ricorrere delle particolari condizioni previste da tale norma, delle somme versate dalla società al socio a titolo di rimborso dei finanziamenti da questi operati nel corso del rapporto sociale.
La norma e la sua ratio
Come noto, l’art. 2467 C.C. è norma dettata nell’intento di evitare la sottocapitalizzazione nominale delle società a responsabilità limitata, ovverosia quel fenomeno per cui la società viene alimentata non mediante apporti di capitale di rischio da parte dei soci, ma mediante il ricorso a capitale di credito, ovverosia tramite finanziamenti redimibili dai medesimi effettuati.
La distinzione non è da poco in quanto, nel primo caso, il socio che sottoscrive l’aumento di capitale o comunque conferisce somme alle società in conto capitale, non potrà più vedersi restituite tali somme se non al momento della liquidazione della società, laddove esista un residuo attivo da ripartire tra i soci una volta soddisfatti i creditori sociali.2
Nel secondo caso, invece, il socio altro non è se non un creditore della società, e, come tale, concorre con gli altri creditori per la soddisfazione del proprio credito, ma in posizione di netto vantaggio rispetto ad essi, se non altro per l’asimmetria informativa ed operativa che, per ovvie ragioni, differenzia in pejus la posizione del creditore ordinario rispetto a quella del creditore-socio.
Con la conseguenza che, in questa seconda ipotesi, il rischio di impresa finisce con l’essere traslato dalle persone dei soci, a quelle dei creditori e, per di più, neppure su tutti i creditori, giacché quelli c.d. istituzionali (come, ad es., gli istituti di credito) possono normalmente contare su leve di pressione e su garanzie del credito che non sono seriamente paragonabili a quelle sulle quali possono fare affidamento, per esemplificare, un fornitore o un lavoratore dipendente.
Consapevole di tale problematica, il legislatore della riforma, ha introdotto la norma dell’art. 2467 C.C., la quale stabilisce, con la prima parte del suo primo comma, che il rimborso dei finanziamenti dei soci di s.r.l. alla società è postergato rispetto alla soddisfazione di tutti gli altri creditori al ricorrere delle condizioni previste dal secondo comma della medesima disposizione (i.e., esistenza di una situazione di squilibrio patrimoniale/finanziario «nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento» in luogo di un finanziamento). Ed aggiunge, indi (seconda parte del medesimo primo comma), che, se tale rimborso è ciononostante avvenuto nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento della società, esso deve essere restituito alla procedura fallimentare.
In tal modo, dunque, il socio, pur libero di finanziare come crede la società cui partecipa , non è, viceversa, libero – ricorrendo le particolari condizioni di cui sopra – di ripetere quanto versato e può essere anche chiamato a restituire l’eventuale rimborso che abbia comunque ottenuto dalla società alle casse del fallimento di quest’ultima che sia eventualmente intervenuto.
Il giudice competente tra tribunale fallimentare e tribunale delle imprese
Il testo dell’art. 2467 C.C. ha posto e pone tuttora diversi problemi pratici, tra i quali quello risolto dall’ordinanza in commento, attinente all’individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda della curatela fallimentare finalizzata ad ottenere la condanna del socio alla restituzione di quanto versatogli dalla società nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento a titolo di rimborso dei finanziamenti in questione .
In tali casi, infatti, alla vis attractiva che il Foro fallimentare esercita per le azioni che derivano dal fallimento ex art. 24 L. Fall., si contrappone, almeno su un piano teorico, l’altrettanto pregnante competenza del Tribunale delle Imprese a mente dell’art. 3 D. Lgs. 27/06/2003, n. 168.
Il caso
Di qui il caso in questione ove, per l’appunto, il curatore fallimentare di una s.r.l. si era azionato dinanzi al Foro fallimentare nei confronti del socio di quest’ultima (in specie un’altra s.r.l.) per ottenere la restituzione dei rimborsi da egli illegittimamente ottenuti ex art. 2467 C.C. , scontrandosi tuttavia con la declaratoria di incometenza del Tribunale fallimentare in favore di quello delle imprese.
Secondo il Tribunale a quo, infatti, andava in primo luogo rimarcata l’autonomia dell’azione di restituzione prevista dall’art. 2476 C.C., rientrante ab origine, sempre secondo il dictum di tale giudice, nel patrimonio della società fallita e dunque non legittimante l’applicazione della speciale competenza prevista dall’art. 24 L. Fall. per le sole azioni che derivano dal fallimento.
Ciò premesso, dunque, la competenza veniva declinata in favore del Tribunale delle Imprese ex art. 3 D. Lgs. 27/06/2003, n. 168 cit., in quanto
«il nucleo essenziale della materia del contendere atteneva a rapporti societari, trattandosi di controversia riguardante due società partecipate dai medesimi soci ed una delle quali era socia dell’altra, nonché avente ad oggetto l’accertamento dei presupposti dell’azione prevista dall’art. 2467 cod. civ».
Di qui il ricorso per regolamento di competenza interposto dalla curatela soccombente sul punto al fine di vedere riaffermata la competenza del Foro fallimentare.
La decisione della Corte
La Suprema Corte, nell’approcciare il tema in esame, prende le mosse, anzitutto, dall’interpretazione dell’art. 24 L. Fall.3 secondo la quale non rientrano nella competenza del Tribunale fallimentare le azioni ab origine appartenenti al patrimonio del fallito ed ivi rivenute dal curatore (che riveste, rispetto ad esse, la medesima posizione sostanziale e processuale del fallito),4 mentre vi rientrano tutte le azioni originate dal fallimento e destinate ad incidere sull’asset fallimentare,5, nel quadro delle quali il curatore agisce quale terzo nell’interesse della massa creditoria.6
Premessa tale distinzione, la Corte qualifica senz’altro l’azione esercitata dalla curatela ex art. 2467, 1° co, C.C. cit. in termini di azione rientrante nella speciale competenza del Foro fallimentare di cui sopra, valorizzando a tal fine la distinzione tra l’ipotesi descritta nella prima parte della norma in questione, che prevede la postergazione del credito del socio relativo ai finanziamenti in parola rispetto agli altri creditori della società, e quella delineata, invece, nella seconda parte della medesima disposizione, che stabilisce l’obbligo di restituzione alla curatela del rimborso comunque ottenuto dal socio nell’anno precedente il fallimento.
Secondo la Corte, infatti, il rimedio restitutorio di cui alla seconda parte del primo comma del citato art. 2467 C.C., pur rappresentando un’ipotesi applicativa della regola posta dalla prima parte della medesima disposizione, è comunque
«destinato ad operare esclusivamente in caso di fallimento della società, come reso evidente dal riferimento temporale adottato ai fini dell’individuazione dei rimborsi soggetti a restituzione, che, presupponendo l’intervenuta dichiarazione di fallimento, consente di riconoscere esclusivamente al curatore, in rappresentanza della massa dei creditori, la legittimazione all’esercizio dell’azione restitutoria».
In conclusione, perciò, non essendo la domanda
«proposta dal curatore annoverabile tra le azioni rinvenute nel patrimonio della società fallita, nel cui esercizio egli riveste la medesima posizione sostanziale e processuale, ma trattandosi di un’azione che trae origine dal fallimento, non può trovare applicazione la speciale competenza delle sezioni specializzate in materia d’impresa, prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, come modificato dall’art. 2, comma primo, lett. d), del d.l. n. 1 del 2012, restando la controversia devoluta alla competenza funzionale del tribunale che ha dichiarato il fallimento, ai sensi dell’art. 24 della legge fall.».
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Scarica Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 24/10/2017, n. 25163
Note al testo
1. Che recita «Art. 2467 – Finanziamenti dei soci. [1] Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. [2] Ai fini del precedente comma s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento».
2. V, sul punto, ad es., Cass. Civ., Sez. I, 13/08/2008, n. 21563, che con riferimento ai versamenti in conto capitale rileva che essi «pur non incrementando immediatamente il capitale sociale e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti a una specifica deliberazione assembleare di aumento del predetto capitale), hanno tuttavia una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile invece a quella del capitale di rischio; con la conseguenza che essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione».
3. Che recita «Art. 24. – Competenza del tribunale fallimentare. [1] Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore».
4. In tal senso si veda, ad esempio, Trib. Torino, 10/02/2016, secondo la quale «la vis actractiva del foro fallimentare non si estende anche alle azioni che già si trovino nel patrimonio del fallito all’atto del fallimento, e che quindi avrebbero potuto essere eseguite dall’imprenditore, a tutela del proprio interesse, ove non fosse fallito».
5. Così, ad esempio, Cass. Civ., Sez. I, 23/07/2010, n. 17279, secondo la quale «sono azioni derivanti dal fallimento, ai sensi dell’art. 24 legge fall., quelle che comunque incidono sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti che costituiscono premessa di una pretesa nei confronti della massa, anche quando siano diretti a porre in essere il presupposto di una successiva sentenza di condanna»; Trib Cosenza, Sez. II, 02/10/2015 «in ordine alla competenza, per azioni che derivano dal fallimento (a norma dell’art. 24 l. fall.) debbono intendersi non soltanto quelle che traggono origine dallo stato di dissesto, ma tutte quelle che incidono sul patrimonio del fallito o che, per la sopravvivenza del fallimento, sono sottoposte a una speciale disciplina, e pertanto deve essere affermata la competenza del tribunale fallimentare ogni qual volta l’accertamento di un credito verso il fallito costituisca premessa di una pretesa nei confronti della massa».
6. In tal senso, oltre all’ordinanza in commento, dove si legge che il curatore, nell’esercizio delle azioni rinvenute nel patrimonio del fallito, «riveste la medesima posizione sostanziale e processuale» di quest’ultimo, v. pure Cass. Civ., Sez. VI, 13/10/2011, n. 21196, secondo cui «la domanda revocatoria di un contratto agrario, ai sensi dell’art. 67 l. fall., nella quale il curatore agisce contro il preteso affittuario non già in luogo dell’originario concedente fallito, ossia quale parte subentrata al fallito, per far accertare obblighi o diritti nascenti dal contratto o per ottenere altre pronunce da valere tra le sole parti contraenti, ma quale terzo, portatore degli interessi del ceto creditorio, con finalità tipicamente recuperatorie del bene al patrimonio del fallito, così come la domanda di simulazione dello stesso contratto agrario – nella specie proposta in via principale dal curatore – in quanto anch’essa rientrante nel novero delle azioni tendenti alla ricostruzione del patrimonio del fallito, non configurano una “controversia agraria”, tale da attrarre la causa nella competenza del giudice specializzato, sicché resta ferma, sebbene ne sia oggetto un contratto di affitto agrario stipulato dal fallito, la competenza del tribunale fallimentare».