E’ bene fare attenzione a quanto si pubblica su Facebook, perché, secondo una recente sentenza di merito, esso può trasformarsi in una fonte di prove producibili in giudizio.
Infatti, secondo il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 13 giugno 2013 (edita dal sito www.ilcaso.it) destinato a divenire un precedente importante, le informazioni e le fotografie pubblicate, dalla parte in causa, su un social network come Facebook, possono avere legittimo ingresso in un giudizio di separazione.
Il caso è quello di una moglie che, avendo perduto il lavoro, dopo la separazione, a modifica delle condizioni di separazione consensuale, chiede il riconoscimento dell’assegno di mantenimento a carico del marito. Quest’ultimo resiste alla domanda, eccependo che la moglie ha, nel frattempo, instaurato una relazione stabile con un altro uomo, che le consente di mantenere un tenore di vita anche superiore a quello avuto nel corso del matrimonio.
La decisione con cui il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere respinge la domanda della moglie, accogliendo l’eccezione del marito, si basa essenzialmente proprio sulle prove rinvenute sul social network Facebook, arrivando, per il tramite di queste ultime, a ritenere provata la relazione stabile della moglie con l’altro uomo, facendo riferimento, in particolare, alle fotografie di viaggi insieme ed ad altre informazioni relative alla ‘situazione sentimentale’ richieste dal profilo del social network.
Per ciò che mi consta, prima d’ora, la giurisprudenza si era interessata a Facebook solo per, da un lato, chiarire, in punto di misure cautelari, che si tratta di un mezzo di comunicazione con i terzi (come tale da vietarsi nel caso di arresti domiciliari: Cass Pen IV 4064-2011); e, dall’altro, in punto di commissione di reati, chiarendo che si tratta di uno strumento per mezzo del quale possono essere commessi i reati di stalking (art. 612 bis cp: Cass Pen VI 32404-2010) o di diffamazione (art. 595 cp: Tribunale di Monza 2/3/2010).
Dunque, sotto il profilo della rilevanza civilistica (come detto, si verte in materia di separazione tra coniugi) delle informazioni ‘postate’ sul socialnetwork in questione, la sentenza qui commentata rappresenta una novità.
Tuttavia, a parte la novità, a mio parere, la particolarità di questa pronuncia sta nel fatto, che il Tribunale, nel valutare la producibilità in giudizio delle notizie, distingue unicamente le informazioni contenute nella chat, da considerarsi corrispondenza privata e dunque tutelate sotto il profilo della divulgazione, da quelle contenute nel profilo personale, che, secondo il giudice di merito in questione, in quanto destinate ad essere conosciute da soggetti ‘terzi’ , sebbene rientranti nella cerchia della c.d. ‘amicizie’ , sono liberamente divulgabili.
A mio parere questa interpretazione richiede una riflessione.
Infatti, come noto, l’utente di Facebook, oltre alla conversazione in chat (che, come visto, secondo il Trib. di S.M. Capua Vetere, resta privata e non liberamente divulgabile), ha la possibilità di scegliere tra diversi livelli di pubblicità delle proprie informazioni e condivisioni.
Può, cioè, scegliere di renderle visibili e, dunque, divulgabili, solo ai propri ‘amici‘ (ossia a coloro che sono stati ‘accettati’ come rientranti nella propria cerchia di ‘amici’); oppure, scegliere di condividerle con gli amici degli amici; oppure, ancora, di renderle accessibile al pubblico (esteso eventualmente anche a chi non è iscritto a Facebook).
Ed allora, poiché il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, esclude dalla libera possibilità divulgativa (che in termini processuali si traduce nella producibilità in giudizio) le sole informazioni contenute nella chat, sembrerebbe voler rendere liberamente divulgabili e producibili in giudizio tutte le altre, comprese, dunque, anche quelle informazioni destinate ai soli ‘amici’ .
Ora, è vero che vi sono utenti con profili Facebook connotati da un numero di ‘amici’ talmente elevato (anche migliaia di amici) da indurre ragionevolmente a ritenere che il profilo medesimo non sia affatto connotato dal carattere della riservatezza (nell’esempio sopra, cioè, informazioni ‘condivise’ con migliaia di amici).
Ma è anche vero che, invece, esistono profili dove gli ‘amici’ sono veramente tali, in quanto sono una cerchia ristretta e selezionata con cui l’utente sceglie di ‘condividere’ le informazioni e gli eventi personali o personalissimi della propria vita (è l’equivalente, se vogliamo, della consumazione di una cena con 20/30 amici fidati nel corso della quale si confida e condivide un fatto personale ).
Le due fattispecie sembrano alquanto diverse tra loro.
Sotto questo profilo, dunque, mi lascia perplessa la decisione del giudice di merito in discorso secondo la quale non deve riconoscersi alcuna forma di tutela alla divulgazione delle informazioni destinate agli ‘amici’, così equiparandole, dunque in questo, in tutto e per tutto a quelle rese esplicitamente ‘pubbliche’ e dunque consapevolmente ostensibili.
Documenti & materiali
– Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 13 giugno 2013 (pubblicato su Il Caso.it)
– Cass Pen IV 4064-2011
– Cass Pen VI 32404-2010
Io sono d’accordo con l’interpretazione del tribunale in merito alla questione “amici”.
La definizione “pubblico”, “amici”, “amici di amici” non può essere presa in senso letterale, tanto più che a quel punto se si accetta l’idea che chi aggiunge qualcuno come “amico” su facebook, considera amico quella persona nella realtà, poi non dovrebbe essere smentito in merito, solo perchè considera amici 1000 persone.
L’interpretazione dei tre termini di cui sopra, va presa per come è definita nelle condizioni del contratto sottoscritto con facebook.
Non sono andato a verificare quest’ultimo punto, ma posso dire con certezza che non si può equivocare in merito: le azioni eseguibili sul social network sono tutte contraddistinte – incluse quelle in cui la privacy viene impostata su “solo io” – da verbi che individuano atti resi pubblici (una vera contraddizione in termini…). In italiano diciamo “pubblicare un post”, “condividere su facebook”. I pulsanti del social network, anche in versione originale utilizzano il verbo inglese to share, che sta appunto per condividere.
Quest’ultimo verbo potrebbe essere interpretato meramente nella sua accezione originale – condivisione con qualcuno, che non vuol dire con tutti – ma all’atto pratico, nel momento in cui un proprio contenuto viene condiviso con un altro utente, gli amici di quell’utente ne vengono a conoscenza e possono interagirvi (l’occultamento agli “amici degli amici” non avviene per tutto il materiale pubblicato; peraltro in merito il sito cambia continuamente politica, a volte in senso restrittivo, a volte esponendo informazioni).
Per cui le definizioni “pubblico”, “amici”, “amici di amici”, non sono definizioni di stato, ma nomenclatura intuitiva dei filtri per la visualizzazione dei dati. Filtri che, peraltro, a causa di qualche bug temporaneo, potrebbe anche non funzionare correttamente, vanificando l’occultamento.
La natura stessa del sito in questione – social network – è autoesplicativa del fatto che tutto ciò che si farà lì sopra sarà a conoscenza di altre persone.
Quando si decide di postare bisognerebbe dunque considerare che Facebook è una piazza virtuale, nella quale ci si può anche nascondere nei vicoli tramite questi filtri all’accesso, ma si rimane pur sempre in un luogo pubblico.
Altra cosa è appunto la chat, che è un servizio di messaggistica e dunque, per sua natura, limitata alla comunicazione privata, per quanto, tecnicamente parlando, la chat non essendo crittografata all’atto del salvataggio nel database, è assolutamente accessibile in chiaro da parte del personale di facebook, divenendo, come le e-mail, comparabili più alle cartoline che alle lettere.
Se poi le foto di questa signora, la ritraevano – come verosilmente accade su facebook – anche in luoghi pubblici assieme al nuovo compagno, non vedo proprio il problema… si è fatta beccare di propria volontà.