Dopo aver letto il d.p.c.m. 10/04/2020 relativo alla costituzione della cd “task force” che dovrebbe affrontare la fase “2” dell’epidemia in corso, non posso nascondere la mia forte perplessità.
Perplessità dovuta, in primo luogo, al numero degli esperti – 19, di cui 2 già operativi nella fase “1” – talmente ampio da rendere la possibilità di decisioni chiare e veloci una vera chimera. In secondo luogo, alla loro provenienza, prevalentemente dal mondo di Palazzo, mentre è sulle “genti meccaniche e di piccol affare” – imprenditori, lavoratori, famiglie, del tutto inascoltati – che si abbatteranno le determinazioni dei detti. Infine, ai nomi, o meglio ad alcuni nomi, di questi ultimi, che, tuttavia, nel contesto dato, restano l’ultimo dei problemi.
Ma, al di là di quanto sopra, ciò che mi ha colpito di più è stata la volontà politica di fortemente e pubblicamente enfatizzare la scansione della gestione dell’emergenza COVID in fasi tra loro successive e diverse, invece di privilegiare, come personalmente mi sarei aspettato, un’immagine di guida del Paese continuativa, razionale, diretta verso il progressivo ritorno alla normalità con il minor numero di scosse, compatibilmente con la condizione data.
Il plateale passaggio ad una fase “2” dell’emergenza, con correlato squillo di trombe e svolazzare di toghe accademiche, spezza, invece, quella continuità, implicitamente suggerendo, così, che quelli che hanno gestito la fase “1” non l’hanno fatto abbastanza bene da meritare di continuare a proseguire nel loro compito, quantomeno da soli, e che, dunque, vanno affiancati, se non sostituiti, da nuovi soggetti “bravissimi”, tali qualificati per provvedimento sovrano.
Considerazione, quest’ultima, che mi rasserena davvero molto poco, perché personalmente pensavo, o meglio, speravo, che quelli che sono stati sino ad ora in cabina fossero già “bravissimi” e non dovessero essere commissariati per il futuro, come è invece accaduto.
Oltre a ciò, penso che la novità ponga anche un problema definitorio, che è il seguente: data a questo punto per assodata l’esistenza di due fasi emergenziali, ” 1″ e “2”, qual è il criterio in base al quale distinguere l’una dall’altra, la cifra che le connota e le rende intrinsecamente diverse tra loro? Dubbio che non è ozioso o formale, in quanto è tale diversità l’unico elemento che possa spiegare perché si sia sentito il bisogno di passare dall’una all’altra fase.
Dopo averci pensato su un po’, ho concluso che il criterio potrebbe essere il seguente: la fase “1” è stata la fase “della confusione”, la fase “2” sarà la fase “della deresponsabilizzazione”.
Per quanto riguarda la fase “1”, infatti, direi che pochi elementi sono così certi come il fatto che dal 31 gennaio al 10 aprile (inizio della fase “2”) la chiave di lettura è stata ed è la confusione operativa e comunicativa.
Lasciamo stare che l’emergenza è stata dichiarata il 31 gennaio e per un mese non si è fatto nulla.
Ma che dire, per citare a casaccio, dell’alluvione di provvedimenti apri/chiudi; delle continue limitazioni alle libertà personali all’esito delle quali, per capire se si può portare fuori il cane a fare i bisogni corporali, occorre una consulenza qualificata; dell’esplosione dei modulini autodichiarativi; delle sanzioni prima in un verso e poi in un altro; del diluvio di norme completamente scoordinate e sovrapposte, legislative o amministrative, statali, regionali, comunali, prefettizie; dei continui annunci televisivi; delle modalità di rilevamento dei dati (decessi, tamponi, ricoveri), ogni volta differenti, dimodoché personalmente non riesco a capacitarmi di come si faccia a confrontare il dato odierno con quello pregresso con qualche senso; dell’esplosione del numero dei virologi e delle relative posizioni pubblicamente espresse, il cui range è andato dal “si tratta di un’influenza che finirà a maggio”, al “moriranno in tantissimi e durerà almeno due anni”; delle mascherine che “non servono a nulla”, anzi “sono indispensabili”, anzi “servono agli altri non a chi le indossa”, anzi “servono solo se hanno un modello X o Y” e che ogni giorno sono state trionfalmente date per arrivate dai più diversi paesi del mondo asiatico in misura mai inferiore ai 50 milioni/telegiornale, restando però introvabili sino a pochi giorni fa; dei “soldi in tasca agli italiani”, che ancora nessuno ha visto; del momento di picco epidemico, che ogni settimana è stato dato in arrivo per la successiva?
E spero di non essermi dimenticato nulla del guazzabuglio emozionale e irrazionale che mi ricorderò per sempre avere caratterizzato questo mese in cui gli italiani sono stati costretti a barricarsi in casa.
Il cui risultato, va ricordato, è che l’Italia si colloca al primo posto per numero di decessi (ed è tuttora ancora al primo perché confrontare il numero assoluto dei deceduti con quello USA è, al momento, pura finzione) e, soprattutto, pare esserlo per il numero dei decessi tra gli operatori sanitari, dato che rappresenta il vero elemento ad altissimo impatto dell’intera questione.
Cornice di confusione, quella sopra ricordata, che, piano piano, ha finito con l’innescare il vero ed unico motore politico italiano dai primi anni ’90 ad oggi, ovverosia la magistratura. Quest’ultima, infatti, sta cominciando a fare inesorabilmente il proprio corso, avviando inchieste, per il momento limitate, a quanto ne so, alla gestione di alcune case di riposo per anziani e contro ignoti, ma probabilmente destinate a spingersi ben oltre tale ambito (e badate, non è polemica questa, i magistrati stanno facendo il loro lavoro e se la politica nazionale facesse il proprio, non ce ne sarebbe alcun bisogno).
Che sia quest’ultimo il motivo più o meno inconscio che ha determinato il passaggio all’attuale fase “2”? Non saprei, ma è suggestivo pensarlo.
La parola chiave per capirlo è un termine anglosassone: accountability, che, detto in modo rozzo e sintetico, non significa responsabilità e neppure rendere conto, significa, invece, verificabilità del modo in cui chi ha la responsabilità del comando lo ha esercitato in relazione ai risultati ottenuti.
Non importa chi sia al comando, quante e quali deleghe abbia dato, l’importante, cioè, è poter verificare il percorso tra decisore, decisione e conseguenza, possibilità in assenza della quale il processo decisionale diviene inevitabilmente manipolabile ed opaco, come la nota espressione “scaricabarile” rende plasticamente evidente a tutti.
Ora, in un sistema di democrazia parlamentare qual è il nostro, è ovvio che non esiste un rapporto di rappresentanza diretta del Governo e dei suoi componenti nei confronti dei cittadini, ma esiste sicuramente un legame politico tra governanti, i quali sono espressione della maggioranza parlamentare che ha loro conferito la fiducia, e governati.
Legame che, in un quadro di norme predeterminato e consolidato, regola, appunto, l’accountability, rendendo possibile, almeno in astratto, verificare la catena decisionale sino ai risultati e ragionare in conseguenti termini di responsabilità politica, ma anche giuridica, dei decisori.
Questo processo non vale, invece, per il comitato di esperti di cui al d.p.c.m. del 10 aprile scorso.
Si dirà che è ovvio, giacché il tecnico, come tale, assume decisioni tecniche che non hanno risvolti politici, mentre la responsabilità politica si addossa per definizione al relativo decisore. Senonché non è affatto così.
Come sa bene chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la materia economica, infatti, la decisione tecnica ha pressoché immancabilmente effetti “ribaltabili” sulla vita delle persone e, dunque, non è mai solo tecnica, ma è anche e, forse essenzialmente, politica.
Il tecnico-esperto che dice al politico: “lockdown“, in altre parole, assume una posizione sicuramente tecnica, ma anche politica, perché destinata ad avere impatti tremendi sulla vita delle persone in termini economici, democratici, psicologici, umani.
Nella propria logica valutativa l’esperto, ovviamente, fa il mestiere che gli compete: egli deve bombardare il virus e lo bombarda, posizionando il resto sullo sfondo dei collateral damages. E starebbe al politico – nella logica dell’accountability di cui sopra – collocare nella corretta prospettiva pubblica tale valutazione tecnica, bilanciandola con la propria.
Senonchè: avete voi avuto la sensazione che questo vaglio ci sia stato? Io, francamente, tale sensazione non l’ho avuta, mentre ho sentito forte e chiaro un coro di personaggi politici affermare che non si poteva fare altro che seguire le indicazioni dei tecnici.
Badate, non dico che non sia stato giusto seguire tali indicazioni (anche se ho più di una perplessità in proposito). Sto dicendo che si è in tal modo falsata la catena dell’accountability, perché nessuna regola pone la responsabilità politica sulle spalle del tecnico, al quale, tuttavia, il decisore politico rimette di fatto la scelta di propria competenza (con correlative responsabilità). Ed in tal modo, nessuno è più in grado di verificare chi abbia realmente deciso e in base a cosa. Le conseguenze restano svincolate dal decisore. Il processo decisionale è opaco.
Questo è quel che è accaduto sino ad oggi e questo è ciò che, a maggior ragione, avverrà nell’odierna fase “2” dopo che il d.p.c.m. 10/04/2020 in discorso ha in qualche modo istituzionalizzato il fenomeno.
Basti, per convicersene, domandarsi quanto segue: in un Paese la cui struttura di governo strutturalmente prevede il ministero dell’economia e delle finanze, quello per lo sviluppo economico, quello del lavoro e le politiche sociali, quello della salute – a tacere di altri – con le relative strutture di sottosegretari, consulenti, portaborse ed affini che li affollano, perché si dovrebbe costituire un comitato di 19 tizi per dire alla Presidenza del Consiglio ciò che quelle strutture sono già istituzionalmente deputate a dire?
Io non voglio credere (anche se faccio molta fatica, lo ammetto) alle parole del Professor Sabino Cassese, che, in un’interessante intervista rilasciata oggi al quotidiano “Il Dubbio”, nel descrivere l’assurdo caos normativo derivato dal corona-virus si è riferito a «chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi» in questi termini: «c’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza».
No. Io voglio essere ottimista e pensare che in tutte quelle strutture sieda gente preparata e competente, perfettamente in grado di svolgere il compito decisorio che la Costituzione e la legge gli assegnano.
E, quindi, ripeto la domanda: che bisogno c’è dei 19 “bravissimi”? E mi do la seguente risposta: i 19 “bravissimi” servono a delegare obliquamente la decisione politica all’organo tecnico, mediante l’acritica e comunque non trasparentemente rendicontabile, ricezione delle conclusioni di tale organo (cui nessuno, però, domani, potrà politicamente e, direi, neppure giuridicamente, chiedere conto) in sede, appunto, politica.
Con buona pace dell’accountability e, direi, della stessa democrazia.
Non saprei come concludere, se non con l’auspicio che, quando anche la fase “2” o “della deresponsabilizzazione”, sarà terminata, l’Italia, come la conosciamo, esista ancora.