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Il 26 giugno scorso, si è commentato criticamente un decreto del tribunale di Roma (Trib. Roma, Sez. II Lav., decreto 20/04/201), con il quale, sul presupposto che i collegamenti ipertestuali appartengano alla categoria dei «elementi attivi» inibiti dalla vigente normativa tecnica del PCT (artt. 11 e 12 D.M. 44/2011; artt.12 e 13 Provv. Resp. SIA 16/04/2014), è stato dichiarato inammissibile un ricorso per decreto ingiuntivo a causa della presenza di detti collegamenti in alcuni documenti allegati al ricorso stesso.
Si è allora osservato che non esiste alcuna norma di legge che possa sorreggere una tale declaratoria; che appare singolare pronunziare l’inammissibilità di un atto processuale non per (presunti) vizi propri di esso, ma a causa di (presunte) manchevolezze dei documenti allegati; che, inoltre, i collegamenti ipertestuali non sono «elementi attivi».
Se ne è, perciò, dedotta l’erroneità del provvedimento in commento (il quale, peraltro, contrasta anche la stessa prassi protocollare adottata dal Foro di Roma, che «raccomanda» l’utilizzo dei link ai documenti allegati) e, per converso, affermata la liceità – quantomeno in tesi generale – del ricorso collegamenti ipertestuali in ambito PCT.
Liceità sempre e comunque?
Ciò premesso, la questione va ora affrontata in una diversa prospettiva.
Ammessa, infatti, in tesi generale, la liceità del ricorso ai collegamenti ipertestuali all’interno di atti processuali ed allegati informatici, occorre indi domandarsi se tale conclusione debba valere in termini assoluti, o se, invece, essa non debba essere valutata in relazione alle particolari circostanze che caratterizzando la funzione e l’utilizzo dei vari collegamenti in questione nell’ambito dei singoli casi di specie.
A parere di cui scrive, in mancanza di un riferimento normativo preciso capace di delineare in modo sufficientemente chiaro i contorni dell’affaire “collegamenti ipertestuali”, la questione dell’ammissibilità/legittimità dell’inserimento di essi in ambito PCT non ha e non può avere una soluzione aprioristica, buona per tutte le stagioni, del tipo “collegamenti ipertestuali sì/collegamenti ipertestuali no”.
Occorre, cioè, cimentarsi con la problematica in termini relativi, sicuramente più complessi, ma anche probabilmente forieri di risultati interpretativi più stabili.
I collegamenti ipertestuali come strumento tecnico
Per approcciare il problema nella sua complessità, dunque, occorre partire da una considerazione preliminare relativa alla natura dei collegamenti preliminari (la definizione dei quali è già stata oggetto di un apposito paragrafo dell’articolo sopra citato, cui si rinvia): i collegamenti ipertestuali sono uno strumento tecnico e, come tutti gli strumenti tecnici, si pongono in modo neutro rispetto al contenuto delle operazioni di cui agevolano il compimento.
Un fucile può essere utilizzato per una innocua e divertente gara di tiro al piattello o per uccidere il componente di una banda malavitosa rivale: il che non cambia la natura del fucile, che resta un fucile. Un problema di legittimità potrà, casomai, investire il tipo di utilizzo che se ne è fatto e le conseguenze cui si è pervenuti mediante tale utilizzo.
Analogamente, facilitare la lettura del documento mediante il rinvio a fonti esterne che ivi vengono citate (si pensi ad un testo di legge cui possa accedersi con un semplice clic, come tutti quelli indicati nel presente articolo), velocizzarne la consultazione tramite la navigazione interna (si pensi all’indice ipertestuale di un documento), consentire di scaricare un determinato file (si pensi ad un documento depositato che possa essere “aperto” cliccando sul relativo numero di indice), etc., sono tutte operazioni rese possibili da collegamenti ipertestuali di diversa natura e che sono, in sé, privi di segno.
Un problema di legittimità, dunque, potrà semmai porsi in funzione del contesto in cui detti collegamenti ipertestuali si collocano (cioè del tipo di utilizzo che se ne faccia) e del contenuto della risorsa cui essi, rispettivamente, conducono (cioè delle conseguenze dell’utilizzo stesso).
Così, ad es., nel quadro di un goliardico scambio di email tra vecchi amici, inserire un link ad un filmato per adulti può ben essere accettabile, mentre il medesimo tipo di link, collocato in una memoria istruttoria un contenzioso avente ad oggetto, poniamo, l’impugnazione della delibera di approvazione di un bilancio non avrebbe, se non in casi limite, alcun senso.
Per converso, il collegamento ad una certa risorsa reperibile online potrebbe ben collocarsi all’interno di un processo civile (si pensi alla necessità di mostrare il contenuto di un determinato profilo social nell’ambito di contenziosi concorrenziali o inerenti alle conseguenze risarcitorie di comportamenti illegittimi come il furto di identità o la diffamazione), laddove la sua pubblica divulgazione senza il consenso dell’interessato in altri contesti e/o per ragioni diverse da quelle difensive, potrebbe porre più di un dubbio di legittimità in ragione del contenuto dell’informazione divulgata, delle circostanze che accompagnano la pubblicizzazione di essa. E così via.
Dunque, si tratta di una questione di sostanza e non di forma, la quale, come tale, non può certo essere sbrigativamente risolta ricorrendo a grossolane semplificazioni, ma richiede una risposta articolata capace di distinguere in astratto i link “buoni”, cioè ammissibili, da quelli “cattivi”, cioè inammissibili, in base a criteri che concernono il loro utilizzo e che di seguito proveranno ad abbozzarsi, senza alcuna pretesa di completezza.
Link “buoni”
Cominciamo, intanto, dai link che sembrano sicuramente ammissibili, in quanto non hanno altra funzione se non quella di agevolare la lettura del documento cui ineriscono.
Rientrano in tale categoria gli indici ipertestuali, le note a piè pagina, i rimandi a documenti allegati (caldeggiati, peraltro, da diverse prassi protocollari), i collegamenti a siti istituzionali che consentono la consultazione immediata di articoli di legge (ad es. Normattiva.it, Gazzetta Ufficiale) e/o che contengono il testo di giurisprudenza edita (come il sito della Corte Costituzionale) e simili.
Non si vede, infatti per quale misteriosa ragione, ad esempio, scrivere “art. 16-bis D.L. 179/2012“, in formato ipertestuale, consentendo al lettore l’immediata lettura della risorsa citata, invece di scrivere “art. 16-bis D.L. 179/2012”, in formato puramente testuale, dovrebbe comportare conseguenze in termini di validità dell’atto in cui l’indicazione de qua è contenuta.
Dello stesso genere i quei link, del tipo “mailto” (ad es. il già citato avvauloagerio@ordineavvocativattelapesca.it), ad indirizzi email che hanno il solo scopo di facilitare l’invio di messaggi di posta ad un determinato destinatario, e/o quelli che permettono il rinvio ad informazioni concernenti l’estensore dell’atto giudiziario, come un link o un QR code posto a fianco del timbro apposto in testa ad esso, la cui apertura conduca al sito web dell’avvocato che lo ha redatto (e che, per ciò che attiene al QR code, “funziona” anche se nel caso dell’atto cartaceo, aprendo la pagina dedicata alla legittimità dei collegamenti ipertestuali – giacché il QR code altro non è se non un collegamento ipertestuale rappresentato da un codice a barre – situati all’interno dei documenti cartacei, che però qui non si affronterà).
Link di cui si può discutere
Esistono, poi, link di cui si può discutere in quanto, seppur “buoni” in tesi generale, possono tuttavia diventare “cattivi” in funzione del particolare quadro di specie in cui si collocano.
Così, ad esempio, il link ad una brochure online di un determinato prodotto, finalizzato a fornire la prova in giudizio di un’imitazione servile o a corroborare un’ipotesi di concorrenza sleale, è, a parere di chi scrive, legittimo solo se opera nel rispetto della normativa generale concernente le preclusioni istruttorie.
In altre parole, cioè, un collegamento del genere, collocato nel contesto di un atto di citazione, o di una memoria istruttoria tempestivamente depositata, non porrà problemi di legittimità, mentre, indicato in comparsa conclusionale comporterà un’evidente violazione delle preclusioni istruttorie e sarà, pertanto inammissibile.
Ancora, riprendendo un esempio che si è già svolto in precedenza, un link ad una filmato per adulti, collocato nel contesto di un contenzioso relativo ad un bilancio societario, non avrebbe alcun senso. Ma altrettanto non potrebbe dirsi se quello stesso filmato, coinvolgendo uno dei coniugi impegnati in un aspro contenzioso di separazione personale, fosse ivi prodotto dall’altro coniuge per comprovare (ai più diversi fini: addebito, idoneità genitoriale, etc.) il comportamento licenzioso del primo.
In tutti questi casi, dunque, la scelta tra illegittimità o illegittimità di un determinato collegamento ipertestuale (e l’apertura della distinta problematica relativa alle conseguenze dell’eventuale illegittimità, per la quale si rinvia al paragrafo conclusivo) dipende dai dati di contesto e non può trovare una soluzione univoca.
Link “cattivi”
Alla luce di quanto sopra, dunque, quella dei link “cattivi” diviene una categoria fondamentalmente residuale, comprendente tutti quei collegamenti ipertestuali che non sono “buoni”, perché i risultati a cui conducono o il contesto in cui sono utilizzati, violano norme processuali fondamentali (e, segnatamente, quelle che regolano le preclusioni istruttorie) e/o perché conducono a informazioni pacificamente inconferenti rispetto alla materia del contendere, ovvero che hanno il solo scopo di screditare una delle parti (una specie di moderna esplicazione delle ottocentesche «frasi sconvenienti e offensive» di cui all’art. 89 C.P.C.) e/o perché sono solo apparentemente link, ma in realtà, una volta cliccati attivano procedimenti informatici virali (e, dunque, sono veri e propri «elementi attivi») e simili.
Il link “cattivo”: quali conseguenze?
Ciò posto, veniamo da ultimo a verificare quali possono essere le conseguenze dell’inserimento, in ambito PCT, di un collegamento ipertestuale illegittimo per una o più delle ragioni sopra indicate.
Cominciamo con il dire che la soluzione di propagare l’inammissibilità del link contenuto in un documento allegato, prima al documento e, poi, tramite quest’ultimo, all’atto a corredo del quale il documento era stato depositato – che è quella adottata dal provvedimento in commento – non è in alcun modo condivisibile, come si è già avuto modo di dire.
Inoltre, va qui ribadito che in un sistema basato sul principio di libertà delle forme (art. 121 C.P.C.) sono apprestati dal sistema stesso appositi strumenti processuali intesi a superare gli ostacoli meramente formali e consentire al processo di pervenire al suo sbocco naturale, costituito dalla decisione di merito.
Così, per esemplificare, nel caso in esame, il tribunale di Roma, una volta ritenuto irritualmente apposto un collegamento ipertestuale all’interno di un documento allegato ad un ricorso per decreto ingiuntivo (il che, per quanto si è detto, non è; ma supponiamo che lo sia), avrebbe ben potuto limitarsi a dichiarare inammissibile quel documento e, forse anche, valutata la carenza istruttoria, invitare il ricorrente ad integrare la prova a mente dell’art. 640, 1° co., C.P.C., mediante produzione di un documento “regolare”.
Ancora, eventuali problematiche di “invalidità formale telematica” riscontrate nel corso del giudizio di merito, quantomeno in fase iniziale, potranno ben essere affrontate e risolte ricorrendo al potere del giudice di «invitare le parti a completare o mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi» ex art. 182, 1° co., C.P.C.
Se, poi – sempre esemplificando – il link abbia lo scopo di gettar discredito, il giudice potrà ordinarne la cancellazione, a mente dell’art. 89, 2° co., C.P.C.
E via dicendo, sino a che, nei casi in cui, non individuandosi alcuna via capace di ricondurre ad utilità il collegamento viziato, potrà scrutinarsene l’illegittimità, gli effetti della quale, tuttavia, in tal caso andranno circoscritti al collegamento stesso e non certo estesi d’acchito all’atto che lo contiene, se non in casi limite, in cui potrà comunque trovar spazio la rinnovazione di cui all’art.162, 1° co., C.P.C.
Del resto, nel mondo della carta chi avrebbe mai potuto anche solo pensare di dichiarare inammissibile, poniamo, una memoria istruttoria perché richiamava alcuni documenti la cui produzione veniva considerata irrituale? Erano questi ultimi, casomai, destinati ad essere stralciati, mentre la memoria – in sé valida – continuava a produrre i propri effetti per tutte le sue restanti parti (ad esempio capitolazione di prove per testi e interpello, altre produzioni documentali e simili).
Non si vede, allora, per quale ragione la conclusione dovrebbe essere diversa nel processo telematico, che, come non si dovrebbe dimenticare mai, resta un processo, in cui, peraltro, occorrerebbe discutere molto di più di ragioni e torti e molto meno di bit e link.
Ma questa è un’altra storia.